Per molto tempo si è pensato che il well-being non fosse una priorità per le aziende, per alcune è ancora così. Provocazione? Dato di fatto? Poco importa, perché non è questo il punto. Sono ancora pochissime le organizzazioni che intervengono attivamente sulle proprie politiche di well-being. Ecco perché ce ne vogliamo occupare
SPECIALE
Speciale Well-Being
Il well-being è una priorità per le aziende?
Per questo speciale abbiamo chiesto una mano ad Alice Manzoni di Trainect, giovane azienda nata con lo scopo di aumentare well-being, team building ed engagement dei dipendenti con un’unica piattaforma ricca di contenuti multimediali creati da coach ed esperti di ogni ramo del settore benessere. La nostra collaborazione parte da lontano, passa attraverso alcuni partner di Kopernicana e trova qui e oggi la sua concretizzazione.
di Matteo Sola
Non si tratta di una domande scontate e di immediata risposta e l’impressione è che in Italia e non solo si sia ancora all’inizio di un percorso di cambiamento culturale.
Il well-being è un’etichetta complessa, un bacino nel quale confluiscono molteplici iniziative in parte sovrapposte al classico welfare (per certi versi il suo antenato organizzativo) ma non del tutto coincidenti e volte al benessere a 360° delle persone in azienda.
Big Quit e Great Resignation: facciamoceli raccontare
Abbiamo provato a dare voce a qualche testimonianza, indagando su quanto un ambiente “non sano” sia in grado di influire sulla scelta – piuttosto radicale – di abbandonare un lavoro che si ama alla ricerca di sensatezza, nuovi stimoli e benessere psicologico. Lasciare un posto di lavoro di questo tipo è un atto di coraggio, non una sconfitta.
di Martina Fuga
Quando scoprii di aspettare la mia prima figlia avevo appena ricevuto una proposta di lavoro. Avuta la notizia andai dal futuro capo e gli dissi: “C’è un problema: aspetto un bambino!” Avevo 32 anni e in quel “C’è un problema” c’erano tutti i miei bias e quelli della cultura del lavoro che mi circondava. Lui mi guardò e senza esitazioni mi disse: “Per me è solo una buona notizia!”.
Inizia così, questa riflessione.
E così, via. Fino alla Pandemia che ci ha messi tutti a casa.
E allora ci siamo resi conto che dovevamo dormire di più e meglio, come diceva Crary, come testimoniava la Huffington.
E che sapevamo organizzarci da soli, come adulti.
E che ci piaceva fare ginnastica da soli in balcone, scacchiare i gerani mentre eravamo al telefono con il capo, stare scalzi in call, vestirci comodi, avere tempo per un caffè in cucina con i figli grandi, ogni tanto truccarci per non dimenticare come si faceva, non prendere più i treni per fare riunioni da un’ora, accarezzare i gatti tra una slide e l’altra.
E questo era e resta il well-being, per noi.
E ce ne dobbiamo prendere cura iniziando dalle aziende, nel profondo.
Ma quali sono le condizioni per cui una persona dice che il lavoro è suo? Che il posto di lavoro è il suo posto? Che il posto da spazio/mansione in cui la persona è stata messa (posita), diventa luogo/proposito di azioni intenzionali?