Diventa difficile parlare di well-being sul posto di lavoro senza avere tra le mani un contributo diretto da figure professionali che ascoltano in prima persona il disagio psicologico di donne e uomini alle prese – anche e non solo – con un mondo del lavoro complicato. Tra le regole del gioco che sono cambiate dopo la pandemia, quella che pone – o prova a porre – la persona prima del lavoratore è certamente tra le migliori. Finalmente è risultato evidente quanto sia importante la salute psicologica di ogni persona all’interno di un’organizzazione. Non solo per le persone, ma per l’organizzazione stessa, soprattutto in ambito di recruitment, engagement e retention.
Ma se è vero che l’attenzione al well-being sul posto di lavoro si sta ritagliando una fetta importante nelle conversazioni in questo momento storico, è altrettanto vero che sono ancora molte le aziende e le organizzazioni che continuano a considerarlo un “di più”, uno strumento da utilizzare nel momento in cui c’è da ripulirsi la coscienza o scacciare il senso di colpa.
Abbiamo posto qualche domanda alla dottoressa Claudia Berger, psicologa e psicoterapeuta esperta in psicodiagnosi, e alla dottoressa Giada Scifo, psicologa e psicoterapeuta specialista in psicosomatica.
Seconda la vostra esperienza, quanto influisce il lavoro sulla salute mentale dei vostri pazienti? Ci sono stati pazienti che si sono presentati in psicoterapia per motivi lavorativi?
Dott.ssa Scifo: Se pensiamo al lavoro come elemento centrale nella vita di una persona, anche solo alla luce dell’investimento di tempo richiesto, non possiamo non considerare l’impatto che questo abbia sulla vita e sulla salute mentale di ciascuno di noi. Poi, con la pandemia e la diffusione dello smart working, abbiamo assistito a una sempre maggiore pervasività del lavoro nella vita delle persone: la linea tra vita professionale e vita privata si è sempre di più assottigliata, il lavoro è entrato nelle mura di casa dando alle persone da un lato una sempre maggiore percezione di riappropriazione del proprio tempo, dall’altro le ha di fatto private di quello spazio fisico e temporale – legato, ad esempio, al viaggio di rientro a casa – che diventava in certi casi necessario per consentire una “decompressione”. In altre parole, ci si porta letteralmente a casa il lavoro e non ci si distacca mai del tutto.
Dott.ssa Berger: Si può dire che il lavoro definisca l’identità della persona ed è quindi inevitabile che diventi spesso il motivo che spinge a intraprendere un percorso di terapia. La scelta della strada professionale da seguire, la frustrazione provata rispetto a un’occupazione non soddisfacente, discussioni con il capo, difficili rapporti con i colleghi, eccessivo carico di stress sono solo alcuni dei motivi per cui le persone possono sentire la necessità di rivolgersi ad uno specialista della salute mentale. Compito dello specialista è accogliere la richiesta relativa alla sfera professionale e fare le necessarie amplificazioni esplorando anche le altre sfere di vita del paziente.
Come e quanto, secondo voi, è cambiato il modo in cui le persone vivono il loro ambiente lavorativo?
Dott.ssa Scifo: Sicuramente in questo momento storico c’è una sempre maggiore attenzione al proprio benessere psicofisico. Questo fa sì che si stia restituendo un nuovo valore al proprio tempo e che non si sia più disposti a sacrificare il proprio benessere emotivo per un lavoro in cui la salute mentale dei lavoratori non venga considerata prioritaria. Una mia paziente, ad esempio, ha lasciato il suo lavoro in un’agenzia di comunicazione per dedicarsi totalmente ad un’altra attività nata come un semplice hobby proprio durante la pandemia. Grazie alla terapia, infatti, ha restituito un nuovo valore a se stessa e al proprio tempo, ha acquisito consapevolezza delle sue risorse e ha trovato il coraggio di lasciare le certezze e la stabilità date dal vecchio lavoro a favore di una dinamica nuova e più sana.
Dott.ssa Berger: Questo vale anche per i giovani e giovanissimi. Anche tra loro, infatti, sembra esserci una vera e propria rivoluzione rispetto alla concezione del lavoro, che viene inteso per lo più come uno strumento di realizzazione personale, in cui la serenità psicofisica e l’equilibrio finalmente prevalgono rispetto al prestigio e al sacrificio.
Quali sono i disturbi più comuni legati alla vita professionale? Come provare a risolverli?
Dott.ssa Berger: uno stato di non soddisfazione rispetto al proprio lavoro può portare a una condizione di disagio psicologico definito stress lavoro-correlato che in alcuni casi può sfociare nella sindrome del burn out. Il burn out è dato da un insieme di sintomi dovuti a uno condizione di stress cronico e persistente legato alla propria condizione lavorativa. I sintomi più comuni sono disturbi d’ansia, dell’umore, disturbi del sonno che se sottovalutati e non adeguatamente trattati possono portare a una condizione cronica e a un totale disinvestimento nel lavoro.
Dott.ssa Scifo: Inoltre, vista la connessione sempre presente tra psiche e corpo, una situazione da stress lavoro-correlato può condurre anche a problematiche che riguardano il corpo. Spesso le situazioni di disagio emotivo, come questo tipo di stress, trovano un loro canale espressivo proprio nella dimensione corporea. È frequente che i pazienti riportino sintomi fisici che interessano vari distretti corporei. Molto comuni sono i sintomi quali cefalee e sintomi a carico del sistema cardiovascolare – come ipertensione arteriosa – o dell’apparato gastrointestinale – tra cui gastrite, ulcera gastrica, colite ulcerosa – o ancora patologie dermatologiche – come dermatiti, psoriasi, eruzioni cutanee.
Avete testimonianze di aziende che hanno ascoltato i bisogni dei lavoratori e hanno compiuto azioni, di qualsiasi tipo, a riguardo?
Dott. Berger: Cominciano a esserci sempre più testimonianze di aziende che scelgono di destinare tempo e risorse nella promozione di sportelli di ascolto psicologico, di formazioni specifiche o di altre attività che aiutino i dipendenti nella gestione delle stress favorendo così il benessere sul luogo di lavoro. È sempre più evidente infatti che laddove la salute psicofisica viene tutelata il vantaggio non è solo per la lavoratrice o per il lavoratore, ma anche per l’azienda stessa, che si troverà un dipendente diverso.
Dott.ssa Scifo: Se tutto questo non viene affrontato, l’impatto creato da queste dinamiche danneggerà l’azienda. Il datore di lavoro deve pensare certamente al suo interesse, ma un dipendente che si rende conto che la sua azienda sta pensando a lui, alla sua salute mentale e fisica è un dipendente maggiormente motivato e – senza dubbio – più felice e proattivo. Questo perché percepisce una maggiore attenzione alla sua individualità.