Viaggio nella memoria delle iniziative fatte per farci stare meglio in azienda
Nel 2016 uscirono due libri apparentemente lontani per stile, ispirazione e autore, che però convergevano con straordinario tempismo su un tema: il sonno.
Il primo era un gioiello raffinatissimo firmato da Jonathan Crary, docente di Modern Art and Theory alla Columbia University, tra i fondatori delle edizioni Zone Books, l’intellettuale che tutti vorremmo come vicino di casa perché in tal caso saremmo in un film di Woody Allen o Woody Allen in persona. Già il titolo, faceva intendere un garbato rimando a un marxismo indicibile ma presente. Quello originale era ancora più risonante: “24/7. Late Capitalism and the Ends of Sleep”. In Italiano divenne “Il capitalismo all’attacco del sonno”
In poco meno di 150 pagine, Crary prendeva il lettore per la collottola e gli diceva non solo che aveva smesso di dormire ma anche che continuava a non accorgersene, perso in un Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, che altro non era che “ il mantra del capitalismo contemporaneo, l’ideale perverso di una vita senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale. Viviamo in un non tempo interminabile che erode ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata, non c’è momento della vita che sia realmente libero. Con la sua presenza ossessiva, il mercato dissolve ogni forma di comunità e di espressione politica, invadendo il tessuto della vita quotidiana”.
Allora avevo un’azienda, regalai il libro a tutti i miei clienti, il 90% di loro mi chiamò per dirmi “Mi ha fatto pensare”.
Nessuno imbracciò il fucile per abbattere il Capitale, qualcuno però iniziò a spegnere il telefono prima di andare a letto.
Crary, invece, restò abbastanza fuori dalla letteratura ispirazionale, quella da post su Linkedin, per intenderci, e nessuno lo chiamò mai come testimonial nelle aziende, alle quali avrebbe fatto un gran bene.
Entrò nelle aziende dalla porta principale Arianna Huffington, invece.
E ci entrò con un libro pop, autobiografico, di quelli con la foto-copertina, tremendamente efficace nel titolo: The Sleep Revolution.
Una campagna di lancio perfetta accompagnò Madame Huffington Post in giro per il Pianeta.
La vidi a Roma, ospite di una grande azienda, raccontare sul palco il proprio tracollo, dovuto a quella “sleep deprivation” che l’aveva quasi uccisa. Con passione mediterranea, l’Arianna nata Stasinopoúlo non ebbe timore di mostrare il lato fragile dell’imprenditrice di successo. Perché ora aveva una missione: convincere i manager ad occuparsi del loro sonno e di quello dei dipendenti, prima che fosse troppo tardi.
Libro e tour furono, inutile dirlo, un successo.
Spianarono la strada a realtà come Headspace, che la Huffington aveva preso sotto l’ala protettiva trasformando la piccola idea nata da Andy Puddicombe da business to consumer a business to business. Nel 2017 mandai anche un CV alla sede di Venice Beach, cercavano un antropologo. Poi ripiegai sull’acquisto di un corso per la mia azienda.
Chiunque abbia seguito la vicenda di Headspace o abbia acquistato il loro programma business sa che lì dentro si annidavano pensieri ben più complessi della meditazione in ufficio.
Perché per far funzionare le cose devi far funzionare davvero le cose.
Perché un pezzo dell’ingranaggio ha impatto sulla macchina.
Ma. C’è un MA.
Ma … erano ancora gli anni del calcio balilla in ufficio, che ancora non ve lo perdono per quel rumore secco, di pallina in porta, che evocava le estati nel pieno delle ore di lavoro.
Oppure del ping pong, che nessuno ci sa giocare e comunque è rumoroso pure lui.
E il rumore si sopporta nel tempo libero, si cerca nello svago. In ufficio, no.
Allora ci si convinse che erano utili i giardini zen.
Si alienavano pezzi di cortile per installare zone in torba, pezzi di corteccia e sassi. Se avevi i tacchi, ci affondavi. A Roma, la corteccia se la portavano via le cornacchie che costruivano sopra le teste dei dipendenti in pausa nel giardino zen un nido zen abbastanza grande per guardarli e commentare “poracci”. Le cornacchie sono molto intelligenti.
Nel giardino zen, in genere, si fumava. Che non è un’attività per nulla zen e che con il well-being ha poco a che vedere. Ma c’era, il giardino zen. E questo già bastava.
Ce lo aveva anche l’azienda dove Arianna Huffington venne a testimoniare che, a forza di celebrare la performance, si va in burn-out e che il burn-out ha costi aziendali altissimi.
E dal giardino zen si passò allo yoga.
Una volta andai a un workshop organizzato da Facebook (non su, da) e un tizio di nome Mike ci fece fare 5 minuti di Qi Gong. Che non era Qi Gong, dissi io che facevo Qi Gong nel tempo libero, ma lo era abbastanza per sembrare una cosa che faceva bene.
E iniziarono allora a esserci una serie di cose che occupavano il tempo del lavoro di cose che servivano a lavorare meglio.
Ma queste cose non si preoccupavano di cambiare il modo in cui funzionavano le organizzazioni, bensì quello in cui dovevano funzionare le persone. “Medita, ti sarà facile essere in focus sulla serie insensata di procedure previste dalla tua azienda”.
E così, via. Fino alla Pandemia che ci ha messi tutti a casa.
E allora ci siamo resi conto che dovevamo dormire di più e meglio, come diceva Crary, come testimoniava la Huffington.
E che sapevamo organizzarci da soli, come adulti.
E che ci piaceva fare ginnastica da soli in balcone, scacchiare i gerani mentre eravamo al telefono con il capo, stare scalzi in call, vestirci comodi, avere tempo per un caffè in cucina con i figli grandi, ogni tanto truccarci per non dimenticare come si faceva, non prendere più i treni per fare riunioni da un’ora, accarezzare i gatti tra una slide e l’altra.
E questo era e resta il well-being, per noi. E ce ne dobbiamo prendere cura iniziando dalle aziende, nel profondo.
Dormire, comunque, fa bene.