Mi ha sempre colpito come molte delle più note e radicali storie di trasformazione aziendale verso il self management, muovanoi primi passi da pure iniziative di benessere per le persone. Inizialmente tendevo a leggerle come mosse tattiche di un illuminato paternalismo. Un leader ha una visione strategica, sostanzialmente solitaria, che spinge l’organizzazione ad intraprendere un percorso di progressiva autonomia di persone e team, ad affrancarsi dalla cultura del comando/controllo, a creare spazi in cui tutti possano prendere decisioni significative per l’azienda. La tattica con cui questa strategia si dispiega, usa come prima leva l’interesse più immediato delle persone per coinvolgerle, per attivarle, forse addirittura per svegliarle da un certo torpore che l’assenza di responsabilità porta con sé.
Forse le cose non stanno esattamente così. O meglio, stanno anche così. Se l’attività lavorativa delle persone è in gran parte qualcosa di sostanzialmente alieno al loro interesse, se gli obiettivi sono stati formulati da qualcun altro, se non solo il dove ma anche il come arrivarci è stato definito in altra sede e alle persone non resta che eseguire e poi dimostrare di aver eseguito, allora bisogna partire da dove le persone mettono attenzione, passione e cuore. E per definizione, by-design si direbbe oggi, queste aree di attenzione sono esterne al business. Il modo ormai tradizionale di lavorare, spesso eh, mica sempre, finisce per ottenere questo paradossale risultato: spinge l’attenzione e la passione delle persone in azienda fuori dal flusso di generazione del valore, perché quello è presidio del management. E allora per invertire la situazione, per cambiare sistema si parte da ciò che il sistema reputa irrilevante.
Ricardo Semler è stato protagonista negli anni Ottanta di una trasformazione spettacolare della sua azienda nell’area di San Paolo in Brasile, che produceva agitatori e miscelatori industriali. Il viaggio di Semco, un viaggio di “democratizzazione” dell’organizzazione industriale e insieme di diversificazione del business (raccontato nel best seller internazionale Maverick), ha avuto inizio risolvendo l’annoso problema della pessima feijoada della mensa aziendale, consegnandolo nelle mani degli stessi dipendenti che, attraverso un comitato da loro formato, presero in mano l’organizzazione della ristorazione negli stabilimenti del gruppo. Di lì furono avviate altre iniziative autogestite “di benessere aziendale”, il colore delle divise di lavoro, l’organizzazione e il design degli spazi industriali, che nella pratica generarono nuove possibilità, nuovi pensieri nelle persone circa il loro poter essere realmente protagonisti in azienda.
Il capitano David Marquet ha creato nel sommergibile nucleare della Marina militare americana, l’ormai celebre Santa Fe, una cultura di leadership diffusa che ha generato performance eccellenti. E l’una e l’altra cosa, leadership distribuita e performance eccellenti, si sono mantenute nel tempo, anche quando il comando del sommergibile era passato ad altri, anni dopo gli avvenimenti raccontati nel bellissimo libro The Leader Ship. Nuove pratiche e nuove parole (per Marquet “leadership è linguaggio”) erano rimaste vive nell’organizzazione del sommergibile al di là dei singoli protagonisti, oltre il carisma del comando, straordinaria dimostrazione che il cambiamento organizzativo si svolge in un orizzonte concreto di micro-pratiche.
Chi ha fatto il militare sa che la licenza è ossigeno; e chi come me l’ha trascorso in fureria sa che ogni licenza di ogni soldato ha bisogno delle firme di almeno due ufficiali e quando queste mancano i compagni non lasciano la caserma. Ora, se per alcuni di noi saltare una licenza aveva implicazioni importanti (specie per chi, a differenza mia, doveva attraversare la penisola per raggiungere casa), mettere a rischio la licenza di un marinaio, e la possibilità di vedere la famiglia dopo mesi di servizio, facendola dipendere dalla burocrazia militare rasentava l’ordinario sadismo. Una delle prime iniziative di Marquet fu di affidare le licenze ai Chief, i sottufficiali che lavoravano gomito a gomito con i marinai, una pratica che sovrascriveva la formalità delle firme degli ufficiali che restò solo nominalmente in vigore (le policy a volte sono uno spreco ineliminabile), mettendo le licenze in un orizzonte di ragionevolezza che prima non avevano. Fu un gesto di cura, parola che etimologicamente viene da una radice che implica il “saper guardare, osservare” e che una falsa ma ugualmente significativa etimologia riconduce al detto latino “quia cor urat”, cura= perché scalda il cuore. “If you take care of your employees they will take care of your business”.
Bene, questo aspetto diciamo funzionale è chiaro. Prenditi cura delle persone e loro tratteranno il business come fosse loro. Ma il business non è loro, che diamine. La funzione funziona ma non ci dice tutto. Quali sono le condizioni per cui una persona dice che il lavoro è suo? Che il posto di lavoro è il suo posto? Che il posto da spazio/mansione in cui la persona è stata messa (posita), diventa luogo/proposito di azioni intenzionali?
Ricordo che in un dibattito di presentazione del volume Humanocracy dialogando con l’autore Michele Zanini avevo introdotto un tema che mi accompagna da tempo. L’orizzonte del self-management può essere sfidante per le persone. C’è un elemento di selfishness in certi approcci manageriali che rischia di bruciare le persone, di esporle troppo, di farle decidere troppo. C’è il rischio di credere che l’idealtipo dell’homo centratus, come l’homo economicus della teoria economica classica, sia un personaggio in carne ed ossa, perfettamente consapevole di sé, dei propri talenti e dei propri obiettivi. E quindi c’è il rischio di generare un paradossale nuovo senso di spaesamento, di perenne ed inesausta sfida. Michele rispose che il movimento di Humanocracy, un essere in movimento di persone e organizzazioni non a caso fondato su principi più che su singoli modelli, punta ad un fit, un’adeguatezza fra persona e organizzazione, un trovare continuamente il proprio posto attraverso mille aggiustamenti piuttosto che attraverso una singola mossa, mille iniziative che non servono a generare il cambiamento ma che esse stesse già sono il cambiamento.
Dice Peter Block in Community: “Il cittadino è chi produce il futuro, qualcuno che non aspetta, implora o sogna il futuro”. Che le persone possano essere come cittadini nelle proprie organizzazioni, che trovino il loro posto. Questa in fondo, secondo me, è la sfida del well-being nelle nostre imprese.