“La mattina è quando io sono sveglio e consapevole;
è sempre mattina nella mia anima.”
Henry David Thoreau, Walden
“Solo chi si è formato abitudini è capace di restare libero.”
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
“Loro hanno il diritto di fare tutto ciò che noi
non possiamo impedirgli di fare.”
Joseph Heller, Catch 22
Non so precisamente quando e come abbiamo deciso di dedicare un nostro Speciale al tema del controllo. Credo l’iniziativa sia stata di Michele Bianco che nel suo articolo usa metafore letterarie e registri giurassici per approcciare il tema. Iniziativa comunque felice perché l’espressione intreccia significati e genera risonanze molteplici a seconda della prospettiva da cui la si osserva e la posizione da cui la si usa.
In parte il termine controllo, per chi si occupa di self management, organizzazioni aperte, leadership distribuita, ownership dei ruoli e – ancor prima – di motivazione, consapevolezza e intenzionalità sul lavoro, ha inevitabilmente il suono sinistro di un passato che non passa. Sembra di sentire il rumore degli ingranaggi di una cultura di derivazione proto-industriale che ancora oggi rappresenta il default mode con cui vengono concepite, e agite, aziende e organizzazioni di qualsiasi dimensione o settore: command&control, taylorismo, burocrazia.
David Marquet, autore del celebre Turn the Ship Around (in Italia pubblicato come The Leader Ship) descrive la crescita organizzativa attraverso un’evoluzione del linguaggio usato dalle persone sul lavoro e lo fa attraverso la metafora della “scala della leadership”. Il grado zero di questa scala è segnato da frasi come “Dimmi cosa fare” che corrisponde a “Fai così”. Quando sono soprattutto queste le espressioni che risuonano in un’organizzazione, o in un team, – ci dice Marquet – letteralmente non c’è leadership. La leadership ha bisogno della motivazione delle persone e il linguaggio che la provoca suona così: “ho intenzione di…” che corrisponde a “che intenzioni hai?”. Questa domanda rappresenta una prima forma di abdicazione al controllo, un rimanere da parte del leader in una zona scomoda e insieme decisiva: non fare, non dire, lasciar fare, lasciar andare. L’abdicazione al controllo ha il suo estremo controintuitivo – quanto è utile il paradosso! – nel livello ulteriore: non sapere. “How can I let go if I don’t even know what’s going on?” (“Come posso lasciar andare se non so nemmeno quel che succede?”). Così ha detto il fondatore di un’azienda portoghese nota per la radicalità del suo approccio al self management in uno speech tenuto ad un recente meetup internazionale (nell’ordine, il fondatore: Luís Alberto Simões, l’azienda: Mindera, il meetup: Global Rebel Cells dei Corporate Rebels).
How can I let go if I don’t even know what’s going on?
In effetti già Bill Gore, fondatore di Gore – azienda multisettoriale da 3 miliardi di fatturato nota al pubblico per il GoreTex e agli specialisti per la cultura organizzativa e per l’innovazione – diceva che “una responsabilità è l’opposto di un compito: è qualcosa che scegliete voi, non che vi viene assegnato”. Bellissimo, ma anche maledettamente controintuitivo. Come fa un leader che non assegna compiti, che non fa, che non dice, che nemmeno sa quel che succede, ad essere un leader responsabile?
Per rispondere propongo una semplificazione: spostando la prospettiva del controllo sul sistema e quindi lavorando per creare le condizioni per un sistema in controllo. E come fa un sistema ad essere in controllo, un sistema fatto da umani, senza che le persone siano controllate? Sappiamo che può accadere se solo guardiamo fuori dal mondo aziendale. La mai abbastanza citata metafora della rotonda stradale è lì ad indicarcelo. Come può funzionare meglio un sistema che si basa sull’iniziativa individuale, su poche regole condivise (tratte dal codice della strada) e sostanzialmente su una precisa condizione materiale (l’assenza di barriere visive), nella fattispecie garantendo più sicurezza e un flusso migliore, di un altro sistema che dice agli automobilisti cosa fare e quando farlo attraverso un set di segni? Perché insomma le rotonde funzionano meglio dei semafori? Perché la responsabilità è più efficace della compliance, ci direbbero Gore e Marquet. Eppure un’altra prospettiva sul controllo ci porta proprio in quel territorio fatto di checklist, di conformità, di audit (ne parla Alessandro Pirani in un altro articolo di questo Speciale). Pratiche che intuitivamente contrapponiamo all’iniziativa, alla motivazione, alla libera scelta che la profonda definizione di Gore pone al centro della responsabilità.
Abbiamo un trade-off qui? Più norme, standard, più checklist e processi formalizzati, più controllo del sistema sulle persone (anche quando non più, odiosamente, delle persone sulle persone), giocoforza sacrificano identità personale e iniziativa responsabile? Più allineamento vuol dire necessariamente meno autonomia? Potrebbe, viceversa, esser necessario un cambio di paradigma, essendo qui in gioco una polarità che chiede di congiungere invece che disgiungere, cercando un equilibrio instabile, come da umani dovrebbe insegnarci il bipedismo (anche questa una soluzione totalmente controintuitiva e paradossale trovata dall’evoluzione…) fra allineamento e autonomia, coesione e identità, limiti e libertà.
Una responsabilità è l'opposto di un compito: è qualcosa che scegliete voi, non che vi viene assegnato.
Proprio questo insegna il Polarity Management, approccio reso celebre da Barry Johnson: una polarità rivela un’interdipendenza fra i suoi poli che svolgendosi danno vita ad un equilibrio dinamico. Io respiro, classico esempio, e compio questa azione dando vita a due movimenti contrapposti, inspirare ed espirare. Non posso fare entrambe le cose contemporaneamente. Devo articolare un ritmo, dar vita ad una danza fra i due poli. Così la libertà ha bisogno di limiti per poter esistere, deve aprirsi una danza fra l’iniziativa del singolo e la coerenza dell’organizzazione, fra la persona e il sistema.
Bene, quali sono le condizioni in cui questa danza può effettivamente iniziare a svolgersi? Abbiamo detto che il nostro leader, che lascia spazio all’altrui intenzione non dicendo, non facendo, persino non sapendo, è un leader responsabile se lavora alle condizioni per un sistema, per un’organizzazione in controllo. Quindi, quali condizioni?
Un po’ paradossale e un po’ lapalissiana, la prima e più importante condizione è avere persone in controllo. Non persone che controllano persone, come adulti che controllano bambini, non sistemi che controllano persone, complessi socio-tecnici alimentati dal medesimo intento paternalistico, ma persone in controllo che agiscono in organizzazioni in controllo.
Provo ad andare avanti e chiudere, almeno per ora, il ragionamento. La condizione psicologica più distante dal controllo è probabilmente la paura. Etimologicamente la paura richiama lo scuotimento, il tremito che infonde il terrore. Al suo opposto c’è la calma, quindi una condizione di quiete, ma anche il coraggio, l’ardimento, stati che ricondurremmo piuttosto ad una condizione dinamica di azione intraprendente. Di nuovo una polarità, un paradosso che sfugge alla logica binaria in cui troppo spesso forziamo il nostro intendere la razionalità, al cui centro sta il nostro amato/odiato controllo e la capacità di agire, la agency che esso innesca.
Controllo viene dal francese contre-role, letteralmente un “contro-registro”, un registro che è un doppio del registro “originale” e serve a riscontrare dati o informazioni. Praticamente irresistibile è per me far notare che proprio con questo tipo di registri, elenchi o controelenchi in Mesopotamia qualche millennio fa la scrittura è emersa fra le pratiche umane, cambiando per sempre il cammino dell’evoluzione della specie e del pianeta.
Checklist, metriche, kpi, standard, visualizzazioni di processi, organigrammi, ONA, sono tutte varianti ed evoluzioni della medesima tecnologia: generiamo dei “doppi” – alcuni molto più efficaci di altri – che ci permettono di rappresentare il mondo e di agire in esso, controllandolo.
Questo controllo, per la persona come per l’organizzazione, è a sua volta l’estremo di una polarità. Esso genera la tranquillità che abilita l’azione, anche la più coraggiosa. Così professionisti che lavorano in condizioni di rischio estremo, come i piloti di caccia, operano mediamente in condizioni di sicurezza psicologica superiore a chi di mestiere fa cose ben più “normali” come il commercialista o l’addetto alle pulizie. L’impalcatura di pratiche e routine di controllo insieme “difende” la persona e orienta/abilita l’azione.
All’altro estremo della polarità c’è lo spazio del non fare, non dire, non sapere, che prima abbiamo attribuito al leader e ora attribuiamo a tutti e alla stessa organizzazione nel suo insieme, se leadership vuol dire render possibile un passo in avanti in una direzione chiara e condivisa. Spazio “passivo” che lascia emergere, che accoglie, che non programma, cioè letteralmente non “scrive prima”, e che poi retroagisce sulla dimensione attiva del controllo, cambiandone continuamente i parametri e la forma perché, come insegna la pratica degli OKR, vanno trovati i “numeri che contano”, quelli che abilitano l’azione saggia, l’azione “giusta” in quanto corrispondente al nostro proposito.