Sfidarsi è bene

lunedì 16 dicembre 2024

6 minuti

Sfidarsi è bene

Auto-controllo e sicurezza sul lavoro. Spigolature.

In the night, no control
Through the wall, something breakin’
Wearin’ white as you’re walkin’
Down the street of my soul

Raf, Self control

 

***** *********** 11:03 AM

ciao

ho chiesto a ***** di tenermi una tua determina per il 16/12: aggiornamento DVR con nuove nomine preposti, addetti ps. antincendio. 

Sono le 11.03 AM di un giorno qualsiasi nella Ditta, e arriva la notifica di Teams. Inesorabile. Un messaggio innocuo. Apparentemente. In realtà, dietro ad acronimi ed espressioni da matita rossa alle elementari fa capolino, nascosto tra le scartoffie, un grande incubo: il Rischio. Il DVR, infatti, non è l’ultimo suv giapponese ma il Documento di Valutazione dei Rischi, (di qui in avanti per brevità il Mappazzone), in cui si ripetono un sacco di cose note sulla Ditta, riepilogando minuziosamente ogni “singolo dispositivo atto a prevenire l’insorgenza” di sfighe assortite. E nella Ditta, di sfighe (e di quasi sfighe, dette “near miss”), ce ne sono un sacco. E una sporta. Approvarne – determinarne – l’aggiornamento comporta la presa d’atto dell’effettiva correttezza e veridicità delle informazioni in esso contenute. Per essere a posto nel caso in cui, come si dice, qualcuno si faccia male. Essere “a posto”. A questo serve il Mappazzone, uno degli n artefatti socio-tecnici (Latour, sempre lui) di cui è disseminata quell’assemblaggio che chiamiamo organizzazione: ad avere una attestazione dell’esistenza – verificabile – di un set di strumenti/procedure/dispositivi che naturalmente non azzerano il rischio, ma tendenzialmente riducono il rischio legale nel caso in cui si produca una situazione di rischio reale. In breve, serve a pararsi il **** 

Con buona pace di Hegel, è sempre una questione di realtà e razionalità. L’agire razionale dell’organizzazione consiste nel dotarsi di puntelli e appigli non tanto per funzionare bene, ma per dimostrare di funzionare bene – dove per ‘bene’ intendiamo ‘in modo da minimizzare i rischi’ appunto reali prima che si possano manifestare. Ed è proprio questa dimensione ‘meta’ che connota in modo specifico il fantastico mondo dei controlli, tra i quali quello della sicurezza sul lavoro è solo uno, anche se il più rilevante. Anche a discapito dell’attenzione concreta che viene posta nell’affrontare quotidianamente i task rischiosi, è infatti enorme la mole di tempo lavoro dedicato al controllo e al controllo del controllo dei potenziali comportamenti rischiosi. Sebbene non stia ovviamente lì la soluzione che azzera la “probabilità di raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di esposizione a un determinato fattore o agente oppure alla loro combinazione”, come recita una definizione classica. E allora perché lo facciamo? 

Il Mappazzone descrive, elenca e attribuisce ruoli di responsabilità formale. Incarnazione sublime di questi ruoli è – nel caso della sicurezza – il preposto. Figura mitologica descritta da un anacoluto (‘preposto’, punto, in assoluto, senza complemento di scopo), il preposto qualifica colui (o colei, ma qui più che mai vince il maschile sovraesteso) cui spetta il controllo sul comportamento altrui. Colui che sul campo è preposto a verificare che tutto sia fatto a regola d’arte, o meglio a regola di ciò che è previsto dalla norma e dal Mappazzone. Colui che nel worst case scenario è il primo a rispondere dell’accaduto. Chi risponde è chi è responsabile, fino a prova contraria. Nel qual caso – cioè se la prova è contraria – a rispondere sarà qualcun altro. Dalla verifica dello stato di fatto, sancito da un documento adottato formalmente da una figura di rappresentante legale, si passa a una responsabilità operativa. L’adozione è un passaggio formale che non performa l’attuazione, non implica cioè che quanto vi si legge avvenga davvero, tutt’altro, fornisce piuttosto una fotografia di ciò che c’è nella speranza che possa bastare. Poi saranno le pratiche concrete che determineranno – salvo che non si produca l’imponderabile, che ahimé si produce eccome – quella condizione chiamata sicurezza cui tutti aneliamo. Sì, perché non bastano tutti i documenti del mondo per ingabbiare la complessità, dove le variabili in gioco – la prima delle quali è l’individuo – eccedono la nostra capacità di gestirla. 

Sì, perché non bastano tutti i documenti del mondo per ingabbiare la complessità, dove le variabili in gioco - la prima delle quali è l’individuo - eccedono la nostra capacità di gestirla. 

Le pratiche, i modi di fare, plasmano le organizzazioni attraverso continui aggiustamenti. Ci si incontra in terre di mezzo in cui si accetta di stare. Per convivere. Per stare bene. Per combattere l’ansia. Sarà grazie all’uso, alla pratica, che l’operatore del compattatore deciderà di aggiungere uno specchietto per vedere meglio a destra. O sarà grazie alla pratica che l’impiegato in ufficio (il vecchio ‘videoterminalista’, ancora esistente secondo l’art. 173 del d.lgs. 81/2008, il testo unico) aggiungerà due Codici degli Appalti sotto il monitor per alzarlo all’altezza giusta. Avranno aggiustato il mondo plasmandolo secondo le proprie esigenze, e tanti saluti alle scartoffie. E giusto? No? Non lo sappiamo davvero, ma ce lo facciamo andare bene. Il preposto non basta a evitare l’incidente, così come all’addetto del banco gastronomia non basta usare i guantoni al gomito per evitare ustioni quando estrae i polli dal girarrosto. E non basta per evitare che, preso da un raptus, infilzi con uno spiedo la collega. Per quanto ci sforziamo, l’idea di una società in cui esiste un’entità in grado di controllare tutto – un panopticon – più che utopica è distopica. E noi non la vogliamo.

Dice: ma anche una società basata sul volemose bene è utopica. Che ‘fidarsi è  bene ma non fidarsi è meglio’, lo sappiamo. E infatti non si tratta di fidarsi o meno, quanto piuttosto di s-fidarsi. Sfidarsi a rifondare un’idea del lavoro superando le dimensioni del formalismo procedurale, concentrandosi sui risultati. Sfidarsi a tenere a bada l’ansia dandosi rituali regolari di sensemaking di ciò che si fa, investendo un po’ di tempo in verba prima che gli scripta vengano comunque dimenticati e vadano in cavalleria. Sfidarsi a rendere ogni persona più proprietaria del perché si fa quello che si fa, oltre il legittimo riconoscimento economico. Sfidarsi, osservarsi: e qui torna utile la vecchia ma mai superata lezione dei cibernetici degli anni settanta-ottanta: viene descritta una realtà sociale del tutto simile a quella biologica, fatta di entità cellulari che si organizzano aggiustandosi reciprocamente, e mettendo in pratica (appunto) quell’idea di ‘controllo orizzontale’ che è la direzione più prossima all’efficacia che conosciamo. Un’organizzazione fondata sull’osservazione e sull’auto-osservazione, in cui continuamente mettere in discussione riflessivamente il senso del proprio agire, alla ricerca di un equilibrio (omeostatico?) tra le due polarità di controllo e di fiducia.  

E infatti non si tratta di fidarsi o meno, quanto piuttosto di s-fidarsi.

Controllo, fiducia. È in questo continuum, in questa tensione, che si apre uno spazio per l’innovazione. Se il Mappazzone ci ricorda che non possiamo fare a meno dei formalismi, è altrettanto vero che il loro valore dipende dalla nostra capacità di andare oltre, rendendoli strumenti al servizio del senso. Questo implica un passaggio dal controllo imposto al controllo condiviso: dal mitico preposto inteso come figura di vigilanza al preposto come facilitatore del senso. Non è facile però, (forse) è tutto qui.  Un esempio pratico: i membri del team si riuniscono brevemente prima di ogni turno per identificare i potenziali rischi della giornata e proporre soluzioni condivise. Non è più il preposto a dettare le regole, ma il gruppo stesso che discute e decide come agire per minimizzare i rischi. Durante questi incontri, ciascun manutentore potrebbe raccontare la propria esperienza sul campo e segnalare problemi che magari non emergono nel DVR o nelle procedure ufficiali: un operatore potrebbe segnalare che una delle piattaforme è scivolosa a causa della condensa e proporre di aggiungere tappetini antiscivolo. Il gruppo approva e implementa subito la soluzione, senza aspettare istruzioni dall’alto. Questa pratica non solo ridurrebbe i rischi immediati, ma aumenterebbe anche la consapevolezza collettiva e il senso di responsabilità individuale. Ogni operatore si sentirebbe parte attiva della sicurezza, piuttosto che un semplice esecutore di regole imposte dall’alto. 

Un’interessante sperimentazione potrebbe venire dalle quasi-sfighe (near miss). Tutte situazioni che, per un soffio, non finiscono nel registro degli infortuni, ma che rimangono sospese nel limbo del “poteva succedere”. Mi sto immaginando il solito preposto che raccoglie le testimonianze di un near miss e le usa per aprire una discussione di gruppo su cosa non ha funzionato e come prevenire il problema. Non per individuare colpe, ma per costruire soluzioni. Anche qua, i near miss non sono solo un fastidioso promemoria che qualcosa non ha funzionato; sono opportunità di apprendimento che trasformano l’evento mancato in un’occasione di crescita. Fino a lanciare il “giorno del near miss”, dove si condivide il meglio del peggio, si ride e si impara insieme. Un piccolo esempio di come anche gli incidenti mancati possano diventare pilastri di una cultura organizzativa più consapevole e partecipativa.

È possibile quindi immaginare un sistema di autocontrollo diffuso, in cui il controllo orizzontale emerge dalla collaborazione e dall’auto-osservazione reciproca. In un momento storico in cui la conta dei morti da incidenti sul lavoro non si ferma. In queste ore è  la volta di Calenzano. Pochi mesi fa un’altra strage qualche decina di chilometri più a nord, sul lago di Suviana. Prima ancora, ancora a Firenze, all’Esselunga. Solo nel 2024, ad oggi fanno 890 denunce di morti sul lavoro in 11 mesi (dati INAIL).

Quindi è ora di sfidarsi, dicevamo. Ad accettare che la complessità non si azzera con una firma o un manuale, ma si affronta con pratiche che mettano al centro le persone. È nelle interazioni quotidiane, negli specchietti aggiunti o nei monitor rialzati (e nella loro socializzazione) che prende forma una sicurezza più vera fatta di usi e modi di fare che migliorano le condizioni di chi lavora. Perché non significa abbandonare le norme, ma riconoscerne il limite, e investire in una cultura organizzativa che promuove autonomia, senso critico e consapevolezza. La sfida più grande è culturale. Passare da un’organizzazione della responsabilità basata sulla colpa a una fondata sulla fiducia richiede un cambio di paradigma. È qui che il “controllo orizzontale” può offrirci una bussola. Non un’utopia naïf, ma un approccio che riconosce il valore dell’osservazione reciproca, della comunicazione aperta e della riflessione collettiva. È un’idea che sfida ciascuno di noi a farsi protagonista del senso di ciò che fa, contribuendo non solo a ridurre il rischio ma a generare un’organizzazione più viva, più divertente, più umana.

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