Sto sfogliando “Organizzazioni Aperte” di Alberto Gangemi e penso agli ecosistemi aperti in cui transitiamo, alla complessità e fluidità del mondo e alla fatica intellettuale che a volte facciamo per tenere sotto controllo ciò che non può essere controllato e chiudere ciò che è inevitabilmente aperto.
Alcuni fatti diversi che mi sono accaduti di recente:
- In “ambiente azienda”, con il team di cui faccio parte stiamo lavorando intensamente e con soddisfazione su eventi formativi, di networking e team building: negli ultimi tre mesi ne abbiamo fatti e progettati di più che negli ultimi tre anni, eppure fino ad un anno e mezzo fa nessuno ce li chiedeva. Realizzato il primo, è partita una piccola valanga, man mano sempre più grande. “L’appetito vien mangiando” dico in questi casi.
- In “ambiente consulenza”, sono finito in una discussione difficile a causa di visioni in contrasto rispetto ad un tema chiave per il business: stavamo dicendo in parte la stessa cosa e con lo stesso intento di fondo, ma il focus su noi stessi e la difesa della propria versione ha rischiato di prevalere.
- In “ambienti accademici”, improvvisamente mi sono scoperto elemento di disturbo per altri soggetti di cui mi consideravo fino a ieri stakeholder e fervente sostenitore. Questo perché, oltre a fare l’HR, frequento l’ambiente della consulenza e delle startup (altri ecosistemi appunto). Non è la prima volta che il mio “non essere incasellabile” del tutto sotto il profilo personale mi crea problemi.
- Nel “dopolavoro”, ho passato diversi minuti ad inviare messaggi vocali ad un consulente che non conosco e che mi ha scritto su LinkedIn per chiedermi consigli sull’utilizzo degli OKR ed essere più efficace con un cliente. Non è la prima volta che regalo il frutto della mia esperienza ad un “competitor”.
Diciamo la verità: tutti noi siamo “intellettualmente gelosi” sul lavoro.
Abbiamo investito tempo, energie e soldi per costruirci una professionalità, una credibilità, un posizionamento e una reputazione su un ambito, una industry, un cluster tematico ecc. Di conseguenza siamo gelosi: del nostro job title, del nostro ruolo, della nostra esperienza, del fatto di essere ricordati come “gli esperti di X”, “i primi ad aver parlato di Y”, “quelli che hanno lanciato Z”. Definiamo qualcosa, lo dichiariamo al mondo e costruiamo steccati nella nostra testa, con cani da guardia psicologici attorno per difenderli. Lo facciamo perché ci dà un illusorio senso di certezza e controllo: abbiamo lavorato tanto e ora siamo al sicuro nel nostro fortino.
E qui inizia il problema, perché non viviamo in una realtà dove si possa pensare di essere i Padroni di qualcosa, nonostante tutte le bandierine che abbiamo piantato. Non abbiamo l’esclusiva su niente, perché in fondo le idee, le pratiche, i metodi di lavoro, la forma stessa che pensiamo di dare ad un’azienda non hanno un marchio che le possa blindare, alla faccia dei brevetti e delle certificazioni. Le cose migliori tendono a contaminare, ad espandersi, a diventare di proprietà di altri e mutare. Il bello è che le idee si diffondono tanto più velocemente, quanto più siamo bravi noi a renderle importanti, utili, rilevanti all’interno del nostro ecosistema di riferimento.
It is evolution, baby.
It is evolution, baby
Quando le idee si diffondono, la sensazione è quella che altri invadano il nostro campo, che si permettano di dire e fare cose che solo noi pensiamo di poter fare. Magari osano persino cambiarle, evolverle… quando, se ciò accade, è solo la dimostrazione che abbiamo avuto un impatto nello spazio sociale in cui ci muoviamo.
Le nostre aziende sono sistemi aperti, in cui il peso specifico percepito del singolo professionista nel suo ambito dipende soprattutto dall’impatto positivo che riesce ad esercitare sulle persone vicine a lui (in quella che Covey chiamava appunto la “sfera di influenza”).
E per l’azienda nel suo complesso è lo stesso con riferimento al mercato, in cui ci sono clienti e partner. Il business è un sistema aperto, il mercato del lavoro e dei mestieri lo è e così tanti altri. È un fatto di spinte, contro-spinte e reazioni non controllabili. Come se ci trovassimo ai bordi di un immenso stagno, c’è chi lancia la pietra ed increspa l’acqua per primo e chi fa surf sulle onde che si propagano. Sono le onde del cambiamento e chi può dire dove arriveranno.
Gli ecosistemi chiusi esistono, ma sono rari, spesso non a caso fragili e tossici. La maggior parte di quelli che resistono nel tempo sono invece aperti e soggetti al cambiamento continuo: è questo ciò che li rende vitali. Se sono aperti non possono essere vincolati alla visione e alle decisioni di uno solo o pochi soggetti, ecco perché il diritto di progettare e ripensare continuamente il lavoro deve essere ed è in realtà di tutti coloro che lavorano, come dice Alberto Gangemi, così come quello di sostenere liberamente una visione e il suo contrario, di diffondere un pensiero, di fare esperimenti che infrangano clamorosamente i dettami del metodo ortodosso che si è inventato il guru di turno.
Gli ecosistemi chiusi esistono, ma sono rari, spesso non a caso fragili e tossici. Se sono aperti non possono essere vincolati alla visione e alle decisioni di uno solo o pochi soggetti, ecco perché il diritto di progettare e ripensare continuamente il lavoro deve essere ed è in realtà di tutti coloro che lavorano
In questo quadro, dare, donare, creare sinergie, community e network generosi ripaga sempre di più dei saccheggi, della competizione spietata e delle guerre di quartiere, in cui si tenta di fare terra bruciata intorno a noi, come insegna A. Grant in “Givers & Takers”.
Ricordiamocelo la prossima volta che faremo esercizio di “lesa maestà”: sul lavoro non siamo i sacerdoti e custodi di alcun tesoro intoccabile, al massimo possiamo essere piccoli coltivatori, che piantano giorno dopo giorno i loro semi… semi di piante che, se siamo fortunati, un giorno cresceranno rigogliose a prescindere da noi.