Questa è la storia di un percorso tra percorsi. È una storia personale ed è professionale.
Tre anni fa mi sono laureata in Scienze e Tecniche Psicologiche con una tesi dal titolo Inclusion climate e organizzazioni: Antecedenti, conseguenze e indicazioni pratiche e, letteralmente una settimana dopo, ho iniziato la magistrale in psicologia. Ed è stato qui che, in piena pandemia, è avvenuto il mio primo incontro con Kopernicana. A maggio 2020, durante una lezione su Zoom, Ilaria Monteverdi, ricercatrice e service designer e partner di Kopernicana, ci parlò di come guidare la trasformazione aziendale a partire da e con l’esperienza delle persone che lavorano nelle stesse organizzazioni.
Come accade a volte con i colpi di fulmine, decido di contattarli per svolgere con loro il tirocinio curriculare previsto dal mio piano di studi. Si è poi trasformato in un successivo stage libero extracurricolare. Da allora, il tema della diversità e dell’inclusione è passato in secondo piano nella mia vita professionale (ma non in quella personale) finché, due anni dopo il mio primo incontro con Ilaria, il tema D&I è arrivato anche in Kopernicana.
A maggio 2022, con l’avvicinamento del mese del Pride, Kopernicana si è domandata se stesse osservando il cambiamento in atto nelle aziende con una prospettiva che andasse oltre l’ambito esclusivamente organizzativo, chiedendosi cosa sapesse di Diversity & Inclusion. Da qui è partito il progetto che ci ha fatto incontrare aziende e persone che man mano ci hanno aiutato a riflettere su noi stessi e su quanto Kopernicana fosse effettivamente inclusiva.
Per quanto riguarda la prospettiva personale di chi scrive, questo viaggio ha permesso una fusione tra percorsi, personali e professionali. Come azienda, invece, abbiamo imparato tanto e ci siamo arricchiti di una consapevolezza nuova: la Diversity & Inclusion è in realtà molto più vicina di quello che sembra alla trasformazione organizzativa. Entrambe sono, infatti, strettamente legate al cambiamento.
Ma se il rapporto del cambiamento con la trasformazione organizzativa è evidente, dal momento che occuparsi di trasformazione organizzativa equivale a modificare i processi e le pratiche organizzative (e se serve trasformare anche la struttura aziendale), quello con la Diversity & Inclusion potrebbe non essere così manifesto.
Tuttavia, questo legame esiste ed è innegabile. Scopo primario dei progetti di Diversity & Inclusion è, infatti, dare origine a un cambiamento della cultura aziendale e delle pratiche e dei processi organizzativi che, di norma, sono basati su assunti normocentrici. Ad esempio, come ha sottolineato Alice Sodi Vice Presidente di Neuropeculiar, che è stata tra i nostri intervistati, spesso nei progetti dedicati a rendere la comunicazione nei gruppi di lavoro più funzionale, “si formano le persone su assunti comunicativi estremamente normocentrici”. Di conseguenza, nei luoghi di lavoro non è inusuale che si creino diversi tipi di barriere, che di fatto creano delle difficoltà (e a volte addirittura escludono) determinate categorie di persone.
Come realtà che si occupa di consulenza e, in particolare, di trasformazione organizzativa, Kopernicana non può prescindere da questa consapevolezza, per progettare modelli, servizi e strumenti funzionali per tutti.
Ed è proprio attraverso il metodo proprio di Kopernicana, la cartografia, che questa consapevolezza può dare origine a delle pratiche di senso efficaci e sostenibili. Durante questa fase, i ricercatori di Kopernicana ascoltano la voce delle persone che lavorano nelle aziende e ne indagano le rappresentazioni mentali e l’esperienza, cercando di comprendere le modalità di lavoro e di gestione presenti all’interno delle organizzazioni. Fino ad ora, questi aspetti sono sempre stati esplorati in relazione al ruolo ricoperto dalle persone intervistate, per mettere in luce eventuali differenze e/o pattern. Nessuna attenzione è stata posta, invece, sulle caratteristiche delle persone che ricoprono (o energizzano, in linguaggio Kopernicano) tali ruoli.
L’acquisita consapevolezza rispetto alla presenza di barriere all’interno delle pratiche e dei processi organizzativi dovrebbe essere un booster per inserire, all’interno delle tracce di intervista, domande di conoscenza volte a cogliere anche le caratteristiche delle persone che ricoprono tali ruoli. Ciò vorrebbe dire, ad esempio, cercare di capire in che modo il genere, l’orientamento sessuale, l’etnia e la disabilità (e tutti gli altri attributi che compongono l’identità di una persona) influenzano l’esperienza in azienda. Di fronte a tale proposta, due potrebbero essere le obiezioni sollevate: una di senso comune e una strettamente legata al metodo di gestione (Holacracy) applicato dalla stessa Kopernicana.
La prima è connessa alla credenza per cui esplicitare le appartenenze categoriali delle persone voglia dire esasperarne le differenze. In realtà, rendere esplicite tali appartenenze non significa affatto accentuare i motivi di diversità; al contrario, una simile operazione consentirebbe di evidenziare che ciò che viene identificato come la norma di fatto non è che una sola tra le molteplici esperienze possibili.
Secondo l’ipotesi della relatività linguistica, infatti, il linguaggio non solo consente all’essere umano di esprimersi, ma plasma il modo in cui la realtà viene percepita. La seconda obiezione nasce, invece, dall’affermazione “roles not souls”, per cui i ruoli verrebbero prima delle persone stesse.
Ma se è vero che una differenziazione tra ruoli e persone è funzionale per una maggiore chiarezza organizzativa, non si può nemmeno dimenticare che, parafrasando le parole di Paola Magrini, Sustainability management specialist e focal point per l’inclusive business di Enel (nostra intervistata), all’interno delle aziende le persone portano anche sé stesse, riempiendo i ruoli con le loro qualità multiple. Per questo, non solo è necessario prestare attenzione a ruoli e responsabilità (scollegandoli dalle persone), ma è altrettanto fondamentale tenere in considerazione chi li energizza. Quando entrano in azienda, infatti, le persone non lasciano fuori dalla porta la propria identità.
L’ambiente di lavoro è un contesto di vita molto importante (dove spesso si passa gran parte del proprio tempo), nel quale hanno origine e si sviluppano i processi psicologici legati alla costruzione del sé. Nelle organizzazioni entrano, quindi, in gioco i medesimi meccanismi identitari che ritroviamo in tutti gli altri contesti di vita. Per questo, anche in azienda, le persone saranno motivate a mantenere una valutazione positiva della propria identità personale e delle proprie appartenenze di gruppo, anche di quelle che apparentemente non sono collegate all’ambiente di lavoro.
Dico apparentemente perché spesso si pensa che gli aspetti identitari non strettamente legati alla vita organizzativa, come ad esempio l’orientamento sessuale, non entrino all’interno delle aziende. Tuttavia, si tende facilmente a dimenticare che le persone eterosessuali fanno continuamente (e tranquillamente, senza paura di venire giudicati per questo) coming out sul posto di lavoro, ogni qualvolta parlino del proprio partner o della propria famiglia (pensate ad esempio alla richiesta di un permesso per accompagnare la moglie, o il marito, a una visita medica). Per questo motivo, anche gli aspetti che generalmente vengono ritenuti far parte della sfera più strettamente individuale dell’identità di una persona entrano prepotentemente in gioco nella vita aziendale.
La storia di un percorso tra i percorsi. È una storia personale ed è una storia professionale, quella di Clara, arrivata da neo-laureata nel nostro team. Ed è una riflessione su un tema centrale: se il rapporto tra cambiamento e trasformazione organizzativa è evidente e dal momento che occuparsi di trasformazione organizzativa equivale a modificare i processi e le pratiche organizzative, quello tra cambiamento e Diversity & Inclusion potrebbe non essere così manifesto.
Prestare attenzione non solo a ruoli e responsabilità ma anche a chi abbiamo davanti diventa, quindi, di cruciale importanza.
Anche la letteratura scientifica sul Diversity Management, tornando all’inizio di questo articolo e alla mia tesi triennale, conferma la maggiore efficacia dei programmi “identity-conscious” che rendono esplicita l’identità sociale delle persone, riconoscendo l’apporto che l’appartenenza categoriale delle persone può offrire all’organizzazione in termini di conoscenze e prospettive (Ely & Thomas, 2001; Li et al., 2019; Thomas & Ely, 1996).
In questo quadro, a mio parere, resta un unico punto da chiarire. Se il Diversity Management è, per definizione, un processo manageriale, come si inscrive all’interno di un contesto self-management basato sull’autonomia e sulla responsabilità delle persone?