Che alla fine un po’ è vero: l’unica cosa che non smettiamo mai di fare nella vita è imparare.
E anche che: è solo il campo che determina quello che diventiamo, oltre i titoli o qualsiasi altra codifica del nostro ruolo all’interno della struttura in cui ci troviamo, per caso o per scelta, a provare a portare un contributo. Un valore aggiunto, di qualunque tipo.
Siamo il frutto di un adattamento continuo delle nostre capacità – alcune delle quali, poche, innate – con l’ambiente.
Un ambiente che è un grumo di oggetti sociali (relazioni, prima di tutto) che si caratterizza principalmente, come direbbero i biologi, per essere quella che cosa che non siamo noi.
Noi – lavoratori, professionisti, persone – siamo quindi ciò-che-non-è-l’ambiente, ed è l’ambiente che ci fa essere quello che siamo, perché ci distinguiamo. Ci distinguiamo riconoscendoci reciprocamente come parti di sistemi cognitivi e biologici che dialogano tra loro. Operando questa distinzione esistiamo come individui, che possono trovare una collocazione nella catena del valore dell’organizzazione.
Appartenere in altre parole a un sistema relazionale basato su ‘come si fanno le cose’ la cui definizione non è quasi mai formalizzata, ma che esiste più di ogni altra cosa: la comunità di pratica.
È vero, tutta questa premessa sembra complicata, ci sta. Ma a volerla fare semplice: it’s all about observation. È una questione di avere o no gli strumenti giusti per osservare e per trattare le informazioni che raccogliamo ogni giorno, in quella particolare forma di interazione sociale che chiamiamo organizzazione. L’osservazione è sempre alla base: quando affianchiamo un neoassunto per gestire l’onboarding.
Quando facciamo un passaggio di consegne. Quando coordiniamo un gruppo di lavoro, e cerchiamo di trasmettere le nozioni (sì, proprio quelle) che per noi sono importanti. Ogni volta ci osserviamo, e osservandoci riconosciamo elementi del nostro agire che di volta in volta possono essere utili oppure dannosi al compito che si deve eseguire.
Quello del task è un modo facile per misurare la nostra capacità di adattamento. Un task-compito che dev’essere da un lato adatto a noi, ma dall’altro funzionale a farci evolvere. In quello che lo psicologo dal nome più impronunciabile di sempre (Mihály Csíkszentmihályi, recentemente scomparso) definisce lo stato di flusso (flow), in cui si raggiunge il delicato equilibrio tra competenze e sfida. L’obiettivo di ogni organizzazione dovrebbe essere sempre questo: fare in modo che le persone stiano bene nel loro flow.
Scomporre in task gestibili aiuta a non cadere nello stato d’ansia da horror vacui o, al contrario, da overload informativo. Può quindi diventare utile ancorare agli achievement su ciascun compito svolto un processo di riconoscimento (nei due sensi del termine): riconoscere un livello di competenza preesistente o acquisita ritmando questo passaggio di status con forme ritualizzate di riconoscenza che scandiscono la vita dell’organizzazione: grazie perché hai imparato.
Scomporre in task gestibili aiuta a non cadere nello stato d’ansia da horror vacui
In questo senso, una metafora possibile per rafforzare la dimensione pratica dell’apprendimento nel corso dell’azione (come direbbe Donald Schön) può essere quella del microdosaggio, la pratica che consiste nell’assunzione di piccole quantità di principi attivi il cui scopo è adattare progressivamente l’organismo ad agenti patogeni, o ad altre mutazioni ambientali.
Il microlearning, somministrato nel modo meno invasivo possibile, produce effetti di allineamento sui fondamentali e sull’up-to-date.
Esistono molti progetti interessanti sul micro-learning: LRNG, ad esempio, è un po’ lo state-of-the-art. In Italia, un progetto pionieristico sviluppato da una delle (forse la) più brightest minds che abbiamo l’onore di avere sul nostro suolo (Chris Richmond) è Mygrants: merita più di un’occhiata.
E in questa pratica, una buona dose di gioco non solo ‘non guasta’, ma è da considerare necessaria by design: incentivare il processo di apprendimento e la sua regolarità passa infatti da varie spintarelle (AKA nudge) che agiscono sui nostri neurotrasmettitori prospettando loro la ricompensa (botte di dopamina). Non è necessariamente mindfucking, ma se proprio volete considerarlo così – una pratica eticamente scorretta – almeno considerate che è per il vostro bene.