“Competition is for losers.” – Peter Thiel
Il capitalismo è di bocca buona
Il capitalismo trae la sua ragion d’essere dalla capacità intrinseca di adattamento e riarticolazione. In altre parole: il dispositivo onnipervasivo di accumulazione, se così vogliamo chiamarlo, esiste in quanto si insinua, si camuffa, si ricombina assumendo di volta in volta le sembianze più diverse.
La fenomenologia cui assistiamo da un po’ (tu chiamalo se vuoi, ma è una iper-semplificazione, trumpismo) opera attraverso strategie oligopolistiche che amplificano l’estrazione di valore non solo sul piano economico, ma anche attraverso il controllo delle narrazioni, la produzione di senso e l’orientamento delle dinamiche sociali. Forse è sempre stato intrinsecamente così, ma mai come ora la produzione di merce a mezzo di merce – per amore di namedropping: indegna citazione di Piero Sraffa – permea ogni aspetto della nostra vita.
Questa pervasività si manifesta oggi nella capacità implacabile del capitale di sovrapporsi alla sfera politica, modellando il discorso pubblico e costruendo comunità che, pur apparendo autonome, risultano eterodirette nei loro processi decisionali e nelle loro forme di interazione. Dice: la politica non conta più niente, c’è solo l’economia. Un po’ è così.
Infatti, attraverso meccanismi di riaggregazione sistemica, il capitale non solo assorbe innovazioni tecnologiche e trasformazioni sociale e organizzative, ma riconfigura continuamente le modalità di estrazione del valore, di volta in volta neutralizzando le istanze critiche e convertendo le tensioni sociali in opportunità di accumulazione.
Il capitale è di bocca buona: va bene tutto e il contrario di tutto, basta – come si diceva una volta con espressione sufficientemente anti-woke da essere attualissima – che respiri. Non è cattivo: è semplicemente amorale.
Avviso ai naviganti (cioè a chi strenuamente quotidianamente e faticosamente si dedica all’arte dell’alternativa): proprio quando si pensa di innovare e di creare alternative al mainstream, è proprio in quel momento che si annida la capacità di ricombinarsi del capitale.
Lungi dall’essere un sistema statico o lineare, infatti, il capitale dimostra una plasticità che gli consente di perpetuarsi ridefinendo incessantemente le proprie strutture operative, cambiando pelle – superficialmente, quindi – passando in rapida successione dalla centralizzazione industriale alla finanziarizzazione, fino alla piattaformizzazione e alla decentralizzazione dell’economia digitale.
Tutti shift, questi ultimi, cui corrisponde sempre una riaffermazione delle stesse logiche di accumulazione ed esclusione. In una parola: di ingiustizia sociale. Ogni ricombinazione coincide con una diminuzione di diritti, e con una nuova inedita perimetrazione del Diritto.
Senza alcun intento moralizzatore – ci mancherebbe! – qui si intende focalizzare la capacità adattativa come connotato costitutivo del sistema economico: che muta continuamente restando se stesso, ed ha anche una conseguenza più subdola. Il capitale infatti non ama la concorrenza, la soffoca. Secondo il mitico Peter Thiel (2014) – chi è? vi basti sapere che le sue quote più quotes più gettonate sono tipo “Non credo più che la democrazia sia compatibile con la libertà”. “L’unica vera disuguaglianza a cui riesco a pensare è quella tra chi è vivo e chi è morto”. “Mostrami una persona che sa perdere bene e io ti indicherò un perdente”.
Ebbene, per questo signore la competizione è una distrazione, un gioco per perdenti. Il vero obiettivo delle grandi aziende non è competere, ma monopolizzare. Cioè, ancora, mangiarsi tutto. Anche noi. Anche voi.
Da questo punto di vista, il problema del capitale non è solo come creare valore, ma di chiudere spazi di alternativa e assorbire, annettere, assimilare, (sussumere?) le istanze di cambiamento per renderle funzionali alla logica di dominio.
va bene tutto e il contrario di tutto, basta che...
Resistenza organizzativa contro l’apocalisse zombie
La buona notizia è che ogni ricombinazione del capitale lascia crepe e interstizi: è proprio in quegli spazi, in quei margini sottili ma vitali, che germogliano nuove pratiche, alleanze inattese, pensieri divergenti e ostinati gesti quotidiani di resistenza e trasformazione. È un po’ come il Kintsugi, l’arte giapponese dell’aggiustare pezzi di ceramica rotti con l’oro. Ci sono bug che vanno (ri)conosciuti e usati come leva di resistenza.
Se ridotto a una lotta per la conquista del potere di dominio sugli altri, mi rendo conto, il gioco dell’organizzazione e delle strategie con cui l’azienda opera nel mercato assume connotati meno poetici.
Una risposta possibile, tentativa, viene tuttavia dal contrapporre alla strategia monolitica e unidirezionale del capitale, tattiche in grado di sovvertirlo, ri-semantizzarlo.
Seguendo Michel de Certeau (1980), “le strategie sono proprie del potere dominante e mirano a strutturare lo spazio sociale per perpetuare il controllo, mentre le tattiche si collocano nel dominio dell’azione fluida, dell’uso creativo e della resistenza situata”. Applicando questa distinzione al funzionamento del capitale, possiamo osservare come quest’ultimo operi strategicamente, riconfigurando continuamente il proprio assetto per mantenere il dominio economico e organizzativo. Di contro, e qui sta il punto, emergono pratiche tattiche che, pur muovendosi all’interno delle maglie del sistema, lo inceppano, lo sovvertono e aprono spazi di possibilità alternativa.
Tutte possibili pallottole d’argento che lo zombie del capitalismo teme.
Ci sono bug che vanno (ri)conosciuti e usati come leva di resistenza
Organizzazioni giuste (oltre che aperte)
Si tratta non solo di progettare granelli sabbia che inceppino il meccanismo per il gusto di farlo (che pure), ma di immaginare modelli organizzativi più giusti. Butto lì: la “just organization“, che non è solo una struttura che resiste all’estrazione del valore, ma un sistema che redistribuisce potere, autonomia e risorse in modo equo e partecipativo. La madre delle pallottole d’argento.
Vediamo: seguendo alcune reminiscenze di Michael Sandel, la giustizia organizzativa non può essere concepita unicamente come una questione di efficienza o di equità distributiva, ma deve radicarsi in un dibattito più ampio sul bene comune, sull’etica del lavoro e sulla partecipazione attiva dei soggetti coinvolti. Immaginare che possano esistere organizzazioni giuste è possibile, e richiede l’assunzione di responsabilità – di accountability? – rispetto al modello sociale che queste concorrono a realizzare. Anche qua: non è neutro cosa vogliamo costruire, che mondo vogliamo.
“Giusto” è sinonimo di “aperto”? In un certo senso. Secondo Gangemi (2023) le organizzazioni aperte offrono un modello che supera le rigidità gerarchiche e introduce processi di governance distribuita, in cui il potere decisionale si sposta verso i livelli più vicini all’azione e alla risoluzione dei problemi. E alla base del cui modello ci sono le pratiche, modi tattici di plasmare la struttura delle nostre organizzazioni.
Tra queste pratiche ce ne sono di particolarmente impegnative: quelle che oltre a distribuire il potere, ne garantiscono una redistribuzione equa e una reale “accontabilità”.
Assumiamo quindi che le organizzazioni giuste – tentando una definizione un po’ spericolata – si fondino su un equilibrio dinamico tra inclusione decisionale e controllo collettivo, prevenendo la formazione di nuove élite informali e garantendo una costante ricalibrazione delle asimmetrie di potere.
“Giusto” è sinonimo di “aperto”?
Altre forme di vita: un catologo
Pensare alle organizzazione giuste implica la necessità di ripensare radicalmente la governance, i rapporti di proprietà e la logica decisionale all’interno delle organizzazioni, non limitandosi a forme di resistenza re-attiva, ma sviluppando alternative che siano eticamente sostenibili e strutturate per resistere alla cooptazione capitalista, promuovendo un superamento della logica gerarchica e garantendo una redistribuzione equa delle risorse e del potere decisionale.
L’idea è di valorizzare – riconoscendole – non solo le pratiche che possono ostacolare la continua riproduzione del capitale, ma anche quelle che aprono spazi per una trasformazione propositiva delle strutture economiche e organizzative.
Un primo possibile catalogo:
Modelli cooperativi non cooptabili
Cooperative platform come CoopCycle (quella dei riders), che utilizzano strutture proprietarie cooperative per resistere attivamente ai tentativi di acquisizione da parte di multinazionali, restando fedeli al principio democratico di proprietà condivisa e controllo distribuito.
Reti mutualistiche e proprietà collettiva
La mitica Mondragon Corporation, una rete cooperativa basca che unisce lavoratori e comunità locali sotto modelli di governance basati sulla proprietà comune e la mutualità, prevenendo così la logica estrattiva della “piattaformizzazione” capitalista.
Commons territoriali e urbani
Esperienze come le Community Land Trust (CLT), in cui la proprietà della terra viene sottratta alla speculazione immobiliare e gestita collettivamente dai residenti, creando modelli territoriali radicalmente democratici e sottratti al ciclo capitalistico di accumulazione.
Economia delle cure e mutualismo radicale
Reti come Solidarity Economy Network, che si focalizzano sulla reciprocità, lo scambio equo e il mutualismo comunitario, generando economie locali che sfuggono alle dinamiche di mercificazione e monetizzazione della vita quotidiana.
Sindacalismo digitale e controalgoritmi
Una roba visionaria come il progetto WeClock, che consente ai lavoratori di raccogliere autonomamente dati sui tempi di lavoro e le condizioni reali di attività, contrastando le narrazioni dominanti imposte dalle piattaforme digitali attraverso algoritmi proprietari.
Finanza etica e disinvestimento radicale
Strategie promosse da movimenti come Fossil Free Divestment che mirano a ritirare (ebbene sì) investimenti da industrie estrattive o distruttive, riposizionando radicalmente capitali verso modelli di finanziamento e sviluppo basati su criteri ecologici, sociali ed etici.
Licenze copyleft e open innovation radicale
O ancora, esperienze di cui abbiamo conoscenza da tempo come Creative Commons, che proteggono beni immateriali e culturali dall’assimilazione commerciale, promuovendo circuiti di innovazione aperta radicalmente alternativi al modello proprietario e monopolistico dominante.
Piattaforme digitali municipali e civic-tech alternativa
Iniziative come Decidim a Barcellona o Consul a Madrid, che integrano tecnologie digitali in forme di governance municipale partecipativa, contrastando l’influenza monopolistica dei colossi tecnologici e generando modelli democratici e distribuiti di presa di decisione collettiva.
Organizzazione autonoma del lavoro e self-management radicale
Infine, i nostri totem di sempre, Semco in Brasile o l’olandese Buurtzorg, in cui le strutture gerarchiche tradizionali vengono dissolte a favore di organizzazioni autogestite dai lavoratori stessi, promuovendo autonomia, responsabilità diffusa e democrazia organizzativa diretta.
Ah, e poi c’è Kopernicana. Per ora.