La trasformazione organizzativa è un valido supporto evolutivo

venerdì 17 febbraio 2023

7 minuti

La trasformazione organizzativa è un valido supporto evolutivo

E se la Specie fingesse di ricominciare da capo?

Sul crinale del cambiamento, non si è mai del tutto pronti. Eppure la nostra Specie di trasformazioni abbastanza radicali ne ha affrontate parecchie. Ma è come se ogni volta ricominciasse da capo

Guardiamoci attorno, siamo esseri sociali. Non necessariamente social ma sufficientemente istruiti per scorrere una timeline o una rassegna stampa. Sì, superiamo la politica, scrolliamo, via la cronaca nera, scrolliamo… eccolo lì, l’articolo sul nostro futuro prossimo.
Da una parte chi dice “Diamoci una mossa”, a costo di modificare tutto, di rinunciare alle certezze. Dall’altra chi prende tempo e oppone una resistenza, tra sarcasmo e spavento. È l’eterno tiro alla fune che manda avanti la Specie: per ogni visione di futuro c’è un sabotaggio. E spesso sono due facce della stessa medaglia.
Chissà, forse anche qualche qualche Neanderthal deve aver detto al proprio gruppo in migrazione “Andate voi, forse vi raggiungo”.
Ma andiamo avanti, non abbiamo le prove.

La “transizione” alla quale ci chiama questo tempo ha una caratteristica molto significativa e profonda, nella successione di eventi che l’hanno mossa: pandemia, guerra, crisi energetica, seppure siano fenomeni non certo privi di relazioni tra loro a livello di macro-sistemi, sono apparsi come un’escalation di “immeritate disgrazie” che -senza troppe mediazioni- ci parlavano di un futuro decisamente incerto per tutto ciò che consideravamo come acquisito. Di fronte all’“immeritato”, si sa, ci si paralizza.

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Non stupisce che la reazione a questo tempo sia anche, in molti casi, conservativa. Meno domande ci poniamo sul nostro punto di stress al cambiamento, più tendiamo a proteggere lo status quo.

Se avevamo imparato che lo smart working poteva essere una risposta, per esempio, l’abbiamo rapidamente re-integrato spostandolo dalla capacità di elaborare modelli nuovi, che coinvolgono le organizzazioni e i gruppi umani, a una sorta di “concessione” per chi volesse ancora farvi ricorso.
Dall’organizzazione alla persona, intesa come dimensione individuale e autoconclusa, insomma. Perché se il gruppo può scegliere il proprio destino e ri-costruire le relazioni, modificando la realtà e facendola progredire per differenza, alla fine la persona, l’Individuo che merita/non merita in base a parametri generalmente collegati alla performance o alla biografia è decisamente più controllabile.
Invece di pensare a costruire il lavoro agile per tutti, con processi, pratiche, visioni, il post-pandemia ha creato il concetto di “chi ne ha necessità per ragioni famigliari può accedere allo smart-working”, esattamente come un tempo si ricorreva al part-time (una sorta di Purgatorio professionale nel quale finivamo spesso noi donne, ricordiamolo).

Gli stessi richiami al rientro in ufficio, lungi dall’essere frutto di elaborazioni, hanno raccontato un mondo -e spesso manager noti per essere stati grandi innovatori, si pensi a Elon Musk o Tim Cook-, che in quei palazzi vuoti vedeva probabilmente anche la fine di uno status. Ridare di nuovo vita a un sistema di simboli che, come in tutte le organizzazioni gerarchiche, ha un punto fermo nei luoghi è stato un -umanissima- operazione di auto-conservazione.

Li abbiamo biasimati, i manager-innovatori. Ma forse non siamo stati pienamente onesti con noi stessi.
Perché partire dal loro conflitto, dalla loro apparente incoerenza nel comportarsi come piccoli reazionari che inneggiano al valore delle relazioni pur di tornare a vedere i dipendenti (sì, anche a controllarli), aiuta a capire dove sta la leva che ci porterà in avanti.
Ammettiamolo: se questo tipo di conflitto lo ha un innovatore che ha cambiato il mondo, la produzione e i consumi, allora forse, dentro di noi, lo abbiamo un po’ tutti.
E lo evitiamo, lo camuffiamo, lo spostiamo esattamente come un Tim Cook che scrive “è bello stare insieme fisicamente a scambiarci le idee” e i dipendenti gli rispondono “Veramente Steve pensava che fosse più importante usare le idee per andare avanti”. Più o meno così.

Il principale nemico di ogni trasformazione è quando non ci diciamo apertamente che ci dispiace perdere qualcosa che consideravamo acquisita, ci fa anche molto arrabbiare, ma che ciò che stiamo perdendo non ha alcun nesso con la nostra capacità di immaginare qualcosa di più adeguato al tempo.
Sì, un terremoto può buttare giù la nostra casa dei primi del ‘900 e il suo meraviglioso bovindo in vetro piombato ma quella che ricostruiremo nel 2022 sarà sicuramente antisismica e magari a 0 emissioni.

Se fatichiamo a immaginare che una transizione sia necessaria è spesso perché abbiamo poca cognizione delle strade che abbiamo a disposizione

Una di queste strade è proprio la semplificazione, per arrivare alla quale serve una sorta di “inventario del superfluo”.
Nella fragilità, ti alleggerisci: questo dovrebbe essere un principio fondante.
Ma ti alleggerisci anche per essere più veloce, più agile e garantirti una buona manutenzione.

Il Self Management, che è il nostro pane quotidiano, da tempo ha offerto questa possibilità alle organizzazioni. L’esperienza di questi anni di lavoro al fianco di tante aziende racconta che tutte le volte che ci siamo avvicinati a organizzazioni molto strutturate, molto gerarchiche e con una cultura visibilmente orientata su una forma piramidale dei flussi e delle relazioni, il primo elemento che abbiamo riscontrato è stato sempre -sempre- una perdita di riferimento e di senso per il singolo. Le nostre cartografie organizzative hanno rivelato centinaia di persone “incastrate nella piramide”, con una scarsissima capacità di movimento e una conseguente paralisi della circolazione delle idee. La piramide era perfetta ma, appunto, immobile. E il business dove va, se deve spostare una piramide?

Se in una crisi non circolano le idee, è altamente probabile quelle poche sul piatto siano inadatte a superarla

Che ci vogliamo fare, siamo umani. Ci raccontiamo da sempre che siamo nel punto giusto della Storia, poi il punto si sposta e noi siamo già la nostra generazione successiva.
Oggi abbiamo avuto più che un invito a spostare in avanti quel punto facendo in modo di restarci dentro. Chi ha dialogato con il cambiamento per tempo, può già agilmente girare il timone perché ha avuto la necessità -per cambiare- di studiare le mappe.
Conosce il valore di una strategia che si “incarna” in ogni persona dell’organizzazione, autonoma nell’applicarla all’interno di una visione piena e assolutamente rotonda, nei suoi punti di riferimento. Lo abbiamo visto portando gli OKRs in realtà di dimensioni considerevoli: è solo guadagno, quell’alleggerimento.

Ma siamo ancora in tempo per una trasformazione organizzativa?

La risposta è e contiene però una piccola postilla antropologica piena di speranza per la nostra Specie: c’è ancora tempo perché qualcuno ha iniziato prima, ha tracciato la strada, ha capito dove si annidavano i pericoli, ha corretto gli errori, ha parlato con altre “tribù”, ha stretto alleanze, si è confrontato, ha rielaborato modelli.
Modelli, non Divinità, quindi sì, c’è ancora tempo per cambiare, per accettare la sfida di questa Transizione (la terza, dopo la Rivoluzione industriale e quella digitale) grazie alla vostra straordinaria capacità, tutta umana, di raccontarvi davvero chi siete, qual è il punto di frattura del vostro cambiamento e se davvero è come pensate.
Se volete conoscerlo un po’ meglio, un passo si può fare insieme.

Queste sono 4 possibili strade per iniziare

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