Entra in qualsiasi riunione tra manager e prima o poi sentirai parlare della strategia. Ma a cosa stiamo facendo riferimento, esattamente? A quelle slide condivise all’inizio dell’anno, con immagini e frasi d’ispirazione e qualche numero sfidante che dovrebbe indicare come siamo cresciuti bene?
Per non parlare dell’utilizzo della parola come aggettivo, quando diciamo di qualcosa che è “strategico”. Solitamente è semplicemente un sinonimo di “importante” o “prioritario”. Ma se cerchiamo il collegamento tra la cosa importante e la strategia, torniamo spesso confusi, se non a mani totalmente vuote. E così tutte le cose ci sembrano importanti, prioritarie, strategiche e di conseguenza niente lo è per davvero. Riconosci questo stallo?
È ora di uscirne.
Se cerchiamo il collegamento tra la cosa importante e la strategia, torniamo spesso confusi, se non a mani totalmente vuote
A quanto pare è piuttosto comune, ed è quello che Richard Rumelt, esperto di livello mondiale sulla strategia, ha trattato nel suo “Good Strategy / Bad Strategy”. Non esattamente il titolo dell’anno ma comunque un libro essenziale sul tema.
Analizza nel dettaglio, con parecchi esempi di realtà di tutte le dimensioni e tipologie, tutti li modi in cui interpretiamo male la strategia. Tutti i modi in cui la sbagliamo. Ne riprendo alcune qui, in modo da svilupparne gli anticorpi, per passare poi ai tre elementi di cui è costituita una buona strategia.
Good Strategy / Bad Strategy
Sognare in grande non è avere una strategia. E non lo è nemmeno l’ispirazione di per sé.
Ogni tanto la retorica del “se vuoi, puoi” ha la meglio su di noi, certo. E ci piacerebbe ispirare le persone con grandi discorsi e visioni del futuro (o anche con il nostro “purpose”) lasciando che il resto venga da sé. Però solitamente è pacifico che il sogno non basta.
Hai presente quella bella citazione di Antoine de Saint-Exupery?
Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave.
Bella. Decisamente un ottimo punto di partenza. Speriamo poi che qualcuno nel team sappia usare il martello, conosca i pericoli del mare e i segreti della navigazione. La grande ispirazione è necessaria, ma non sufficiente.
Ogni tanto la retorica del “se vuoi, puoi” ha la meglio su di noi
Allora forse ci serve un piano – ciò che intendiamo fare nei prossimi 3, 12 o 36 mesi. Ma nemmeno quello è una strategia. Mettere in fila una serie di azioni per raggiungere una meta, specie se ciascuna azione apre le possibilità alle prossime, è assolutamente lecito.
Ma quali saranno le difficoltà nel raggiungere la meta? Siamo sicuri che sia tutta questione di forza di volontà e rigore di applicazione del piano? Certo che non è così. Non viviamo più nell’illusione di essere un’isola. Vediamo tutti i giorni quanto siamo interdipendenti. Il rischio nell’ avere (soltanto) un piano è quello di attaccarsi ad esso come ruota di salvataggio. Come se riuscissimo ad applicarlo, per filo e per segno, o almeno tentare di farlo fino in fondo – potremmo dirci che abbiamo fatto la nostra parte. E se non ha funzionato, beh, non è più nostra responsabilità. E così cadiamo nella trappola del medico che dice “l’operazione è riuscita, ma il paziente è morto”. Anche il piano d’azione è necessario, ma non sufficiente.
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Non viviamo più nell’illusione di essere un’isola
Allora forse la meta di quel piano, l’obiettivo, è la nostra strategia? Mi dispiace.
Nemmeno se li chiamiamo target o goal. Nemmeno se scriviamo obiettivi SMART o anche OKR.
Definire i risultati che vogliamo ottenere e i modi per misurare il nostro avanzamento è cruciale, senza dubbio.
Ma perché scegliamo un obiettivo anziché un altro? Perché una direzione anziché un’altra? Potremmo decidere di crescere organicamente, territorialmente, o attraverso operazioni di M&A. Potremmo decidere di centralizzare funzioni per economie di scala e integrarci verticalmente oppure distribuire autorità alle estremità dell’organizzazione e addirittura di incentivare la competizione interna tra diverse Business Unit.
Tutte le strade sono possibili, tutte lecite, agnostiche. Scegliere tra le varie possibilità può essere guidato da una parte dalla nostra etica – ciò che riteniamo giusto fare – o da una valutazione della loro efficacia. Anche gli obiettivi quindi, in qualsiasi forma li scriviamo, sono necessari ma non sufficienti.
Ma ora ci stiamo avvicinando.
Ma perché scegliamo un obiettivo anziché un altro?
Per valutare l’efficacia di una strada piuttosto che un’altra, infatti, è necessaria un’analisi della situazione. Una ricognizione dello status quo, che ci possa suggerire ragioni per le quali una via ha più potenziale di un’altra. E qui troviamo il collegamento a ciò che Rumelt definisce il nucleo, o kernel, di una buona strategia. Consiste di tre elementi:
> Diagnosi di un problema o sfida
> Delle linee guida per orientarsi
> Una serie di azioni coerenti
La diagnosi ci permette di capire la situazione e le sfide ed opportunità che ci presenta. Una buona diagnosi non si ferma in superficie dichiarando, per esempio, che “siamo troppo lenti per il mercato”.
Dovremmo andare a fondo chiedendoci cosa ci rende lenti nello specifico – cultura aziendale? Struttura degli incentivi? Burocrazia interna?
Da un’attenta analisi emergeranno poi le leve che potremmo applicare per modificare la situazione. E si chiamano leve perché permettono di ottenere risultati molto maggiori rispetto allo sforzo applicato. Non soltanto l’ispirazione o la forza di volontà, dunque, ma una scelta consapevole del punto esatto in cui le vogliamo applicare.
“Datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo” attribuita ad Archimede
Non soltanto l’ispirazione o la forza di volontà, dunque, ma una scelta consapevole del punto esatto in cui le vogliamo applicare.
Le linee guida ci aiutano ad interpretare gli avvenimenti e orientare le priorità in corso d’opera. Se siamo lenti per burocrazia potremmo decidere che il focus è quello di minimizzarla. Se concludiamo che internamente faremo molta fatica a cambiare le cose, potremmo optare per strategie di open innovation collaborando con startup, università e incubatori.
Non è ancora un piano delle cose da fare, ma una guida che darà coerenza a ciò che decidiamo di fare, e ciò che decideremo di fare sia per la stesura del piano sia per ogni revisione. Perché dovremmo sicuramente rivederlo.
Interpretare gli avvenimenti e orientare le priorità in corso d’opera
E ora possiamo darci da fare, finalmente. Elencare una serie di azioni, coerenti con le linee guida e coerenti tra loro, ci permetterà di indirizzare gli sforzi nello stesso punto di leva. Ci permetterà di coordinarci.
Ora siamo pronti a usare il concetto della strategia stessa in maniera più completa.
Forse la prossima volta che diciamo di qualcosa che è “strategica” potremmo riferirci alle linee guida o addirittura alla nostra diagnosi della situazione. E così non ci inganniamo che lavorare con gli OKR è soltanto un modo per mettere gli obiettivi “in bella”. Perché se fatto bene crea qualcosa di straordinario. Permette a tutti i livelli dell’organizzazione di formulare la strategia e di calarla nella propria operatività.
Le conversazioni che il metodo richiede fanno sì che analizziamo la situazione, ci orientiamo e guidiamo le azioni, regolarmente e in maniera capillare.
Gli obiettivi scritti si vedono, ma sono più importanti i pensieri che li compongono.