Nel tentativo di semplificare un mondo sempre più complesso, rischiamo di cadere nella trappola della semplificazione estrema, alimentando narrazioni rassicuranti ma pericolose. Se populismi e leadership autoritarie sfruttano il “panico da complessità” con soluzioni facili, slogan e capri espiatori, annullando il pensiero critico e la ricchezza delle differenze, è necessario ri-educarci alla complessità, riconoscere le interdipendenze, superare il binarismo e apprendere nuove modalità di lettura della realtà
La paura della complessità
“Il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva, mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione brutalmente totalitaria del mondo”. Così scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1974, un anno prima di essere ammazzato, sulla pagine del Corriere della Sera in un articolo intitolato “Il Potere senza volto”.
Il 2 novembre 2025 saranno passati cinquant’anni dalla sua morte e nel mentre il Potere ha trovato nella digitalizzazione, nella platform economy e nell’intelligenza artificiale un’efficiente cablatura, e forse sta trovando anche un volto.
Le tecnologie e i paradigmi del digitale hanno tutti in comune una cosa: sono sistemi complessi a forma di rete, e servono a renderci le cose semplici. D’altronde siamo esseri, noi umani, che cercano continuamente di ridurre la fatica cognitiva e siamo naturalmente attratti da qualsiasi scorciatoia che ci semplifichi un processo di elaborazione mentale, che si tratti di un parcheggio a S o dei migranti nel Mediterraneo. In un bellissimo articolo del New York Times “The Tyranny of Convenience”, Tim Wu ci spiega come sia successo che la comodità sia diventata la forza più sottovalutata e meno compresa che muove il mondo di oggi.
Viviamo in un crescente paradosso, dove le tecnologie che abbiamo impiegato per semplificarci la vita ne hanno aumentato esponenzialmente la complessità, dalle relazioni interpersonali al modo di produrre valore, sino ad elaborare e condividere le conoscenze.
Si è creato un preoccupante divario tra i problemi globali che la specie umana deve affrontare, che sono sistemici, transnazionali, trasversali – in una sola parola: complessi – e l’approccio conoscitivo prevalente, che è parcellizzante, divisivo, isolante, ovvero tende a negare tale complessità.
Vivere nel paradosso crea ansia, e – tanto nella psicologia individuale, quanto in quella sociale – quando non si è in grado di costruire un significato attorno all’ansia, essa degenera in panico. Proviamo ora ad immaginare un maniglione anti-panico. Com’è fatto? È un oggetto semplice, molto visibile, veloce nello scatto, che minimizza il carico cognitivo: è sufficiente andarci a sbattere, anche non intenzionalmente, per attivarlo.
Si è creato un preoccupante divario tra i problemi globali che la specie umana deve affrontare, che sono sistemici, transnazionali, trasversali e l’approccio conoscitivo prevalente, che è parcellizzante, divisivo, isolante, ovvero tende a negare tale complessità
Il design dei sovranismi
È lo stesso design che i sovranismi e i populismi – in qualsiasi epoca, in qualsiasi parte del mondo – applicano alla comunicazione per fare leva sulla componente rettiliana del nostro cervello. E allora troviamo l’apologia del semplice, le narrazioni confortanti, la ricerca di facili colpevoli, gli eroismi, i complotti, i vittimismi, gli slogan a prova di analfabetismo funzionale, la polarizzazione e la conseguente cancellazione delle devianze.
Come facciamo a gestire questo attacco di panico ed evitare che questa psicosi da semplificazione appiattisca anche la democrazia, che è la regina dei sistemi complessi? Educandoci alla complessità. Come sostiene Piero Dominici in “Democrazia è complessità” dobbiamo educarci alla consapevolezza delle nostre interdipendenze sistemiche, alla cultura del dubbio e dell’errore, all’imprevedibilità e alla complessità della vita in una prospettiva che non può che essere critica, socio-emotiva e sistemica.
Sempre Dominici, già nel 1995, indicava quella dell’educazione come la questione delle questioni, superando la contrapposizione tra formazione umanistica e formazione scientifica, per formare, a tutti i livelli, menti critiche ed elastiche, figure ibride, aperte alle contaminazioni fra i saperi e le competenze.
Come facciamo a gestire questo attacco di panico ed evitare che questa psicosi da semplificazione appiattisca anche la democrazia, che è la regina dei sistemi complessi?
Dunque, che fare?
Ma come possiamo educarci a qualcosa che per sua stessa natura è complessa da vedere e da comprendere? Proviamo allora a scendere di un gradino ed arrivare sul piano della pratica. A partire dalla fine degli anni ‘90 alcuni sociologi appartenenti alla branca della sociometria, hanno iniziato ad applicare la network science per riuscire a studiare i comportamenti di gruppi di individui, i cui complessi schemi relazionali non erano rilevabili e gestibili con i metodi tradizionali.
Nasce così la Social Network Analysis (SNA), una tecnica che negli ultimi anni ha visto una crescente applicazione in diversi campi scientifici, come quello fisico, biochimico, genetico, medico, economico, nonché in modo trasversale in parecchi ambiti della computer science, pur mantenendo convenzionalmente l’appellativo “social”, a ricordo della sua origine.
Facciamo ora un ultimo passo, di lato, e posizioniamoci su un piano intermedio tra la società e i singoli individui, ovvero il piano delle organizzazioni. Che si tratti di aziende, governi, associazioni, scuole, carceri o enti religiosi, le organizzazioni rappresentano delle società nella società e al loro interno troviamo la medesima complessità e le medesime contraddizioni di cui abbiamo parlato finora.
La buona notizia è che, mentre per la società sarebbe irrealistico immaginare un’applicazione di SNA che ci consenta di mapparla e di comprenderla nella sua interezza, per le organizzazioni invece è possibile. L’Organizational Network Analysis (ONA) è la declinazione della SNA per le scienze organizzative e consente di studiare le relazioni e i flussi di collaborazione all’interno di un’organizzazione. Attraverso dati quantitativi e rappresentazioni visuali sotto forma di grafi di reti, identifica le strutture informali di interazione tra individui, team e dipartimenti, facendo emergere l’organizzazione reale che vive sotto l’organigramma.
In Kopernicana siamo convinti che sia necessario approcciare le organizzazioni con grande cura e rispetto della loro complessità, per essere in grado di individuare quei pattern emergenti di collaborazione che rendono ciascuna organizzazione unica ed irripetibile. Ne siamo così convinti che abbiamo disegnato ed implementato un’evoluzione delle ONA, che abbiamo chiamato “GiONA” per riuscire a scendere nella “pancia” delle organizzazioni e da lì riuscire a vederle e a comprenderle. Se siete curiosi di sapere di cosa si tratta, di come le stiamo utilizzando e di come abbiamo in mente di farle evolvere ulteriormente, ve lo raccontiamo nell’approfondimento che trovate in un altro articolo di questo Speciale.
Per concludere, avere fiducia nella complessità significa non essere autoreferenziali rispetto ai propri schemi mentali, al proprio vissuto e ai pregiudizi di contesto. Significa credere che il valore di un sistema sia più della somma delle sue singole parti. Il che – in ultima istanza – significa avere fiducia nelle persone e nell’imprevedibilità del loro modo di stare insieme e di organizzare dei significati attorno ad uno scopo comune.
Un altro modo non c’è, poiché come ha detto il premio Nobel Giorgio Parisi in una lectio magistralis del 2021 “Perdere la complessità è pericoloso. La negazione della complessità è l’essenza della tirannia”.