Che rilevanza ha oggi la D&I per il mondo HR?
Non è scontato chiederselo, in un panorama che continua a sembrare molto diversificato. Sicuramente oggi non è un tema nuovo e la sua importanza, almeno a parole, è ben nota alle aziende.
Alcune corporate hanno istituito vere e proprie funzioni D&I, solitamente entro i confini del più ampio dipartimento HR, volte a presidiare le attività a 360°. Altre aziende tentano di inserire la D&I all’interno dei progetti culturali, di formazione e di sviluppo delle persone, sfruttando le competenze già esistenti in altre funzioni HR, quali appunto L&D, Comunicazione Interna e Talent Acquisition in primis (dimenticando che i temi D&I dovrebbero toccare tutte le attività, dall’amministrazione al Comp&Ben, fino alla vecchia cara “gestione”).
Altre ancora non toccano nemmeno il tema e raramente si pongono il problema, se non nel caso di urgenze dettate dalla necessità di reagire ad una crisi reputazionale pubblica, ad un episodio di discriminazione denunciato per vie legali o all’improvvisa necessità di far vedere che si è compliant rispetto ad un ente certificatore esterno.
E non entriamo nemmeno nella corsa alle certificazioni e agli attestati di una garanzia che non sussiste mai fino in fondo, perché oltre le operazioni di employer branding, nessun contesto può dirsi immune da problemi e limiti in materia.
Quale sia l’approccio migliore è altrettanto difficile dirlo, visto che parliamo di un tema culturale, complesso ed articolato, che non è possibile risolvere con qualche progetto specifico ed isolato, né demandare in toto ad un’area dell’azienda che compensi le carenze strutturali dell’azienda. Il rischio è equivalente a quello di creare il dipartimento innovazione o digital transformation: stiamo costruendo un potenziale silos, un nucleo dagli intenti nobili, ma pericolosamente sconnesso dal resto, che continua ad agire sulla base di altre logiche interne. Questo salvo un’abilità particolare nel sensibilizzare e “portarsi dietro” appunto quel contesto rispetto al quale si mira a fare la punta di diamante.
Sicuramente l’obiettivo più alto di una funzione D&I sarebbe quello di rendersi inutile nel tempo più breve possibile, diluendosi nei tanti ruoli e nelle competenze diffuse del resto della struttura HR e non solo.
Detto questo, al di là delle strutture, l’HR sta realmente cambiando?
La sensazione è che su questo tema siano proprio le corporate, nonostante tutti i loro limiti a tentare di dare le risposte più concrete e a mettere in campo non solo parole, ma comportamenti, processi e risorse.
Per fare un esempio, possiamo evidenziare a tal proposito realtà come Microsoft o EY che, già alcuni anni fa, hanno costruito specifici percorsi di assunzione ed inclusione dedicati a persone autistiche o con altre neurodiversità, spesso naturalmente tagliate fuori dagli ordinari processi di selezione. Non ci si è limitati quindi a contrastare o smorzare i bias e i limiti dei processi esistenti (come per intenderci avviene con la strategia del blind recruiting per favorire l’assunzione delle donne). Costruire percorsi e processi ad hoc, quindi “fare differenze” a fin di bene per determinate categorie può rivelarsi a volte l’unica soluzione realmente efficace per andare incontro ad esigenze particolari, come quella di avere un luogo di lavoro tranquillo e accogliente, in cui mettere in campo al meglio le competenze (a tratti molto rilevanti) di una persona nello spettro.
Operazioni che, capiamo bene, non sono di poco conto in termini di risorse da convogliare su una percentuale magari minoritaria del personale (come avviene sempre per le disabilità, ma non solo), che rendono questi discorsi fantascienza per la maggioranza delle aziende.
Eppure è proprio qui che sta uno dei punti centrali della D&I in ambito HR.
Nonostante tutte le recenti evoluzioni e la tendenza, nel dibattito, a percepire come superata la parola “diversità”. È proprio nel riconoscere che siamo tutti a nostro modo diversi e quindi unici e da valorizzare. Nel capire che siamo bisognosi di una employee experience diversificata, in grado di adattarsi a noi, di essere flessibile e quindi capace di distinguere a seconda dei casi il design delle soluzioni, a volte anche radicalmente. In questo credo che risieda una delle chiavi di un approccio maggiormente efficace per la D&I ma non solo e una delle domande di non facile risposta, ma da porsi sempre, in ambito HR.
Perché essere giovani non equivale in termini di bisogni ed obiettivi all’essere ad un passo dalla pensione (a proposito di differenze generazionali), perché essere donna non è essere uomo da n punti di vista e viceversa (e non basta colmare gap e sanare discriminazioni palesi), perché essere di una cultura, religione ed etnia o di un’altra ha impatti su mille sfumature e a volte non è sufficiente dare le stesse garanzie e cure a tutti e potremmo continuare.
Solo interrogandoci sulla nostra capacità di differenziare con intelligenza per dare valore alle differenze, pur rimanendo cioè equi e non producendo ulteriori discriminazioni negative, possiamo abbandonare il vecchio vizio di semplificazione massiva dell’HR e il tradizionale ricorso a soluzioni one size fits all, che nel tentativo di soddisfare tutti tendono a non soddisfare nessuno. In questo modo potremo affrontare la sfida della costruzione di un contesto aziendale realmente inclusivo, aperto e ricco di diversità.