Questa estate ha regalato una nuova etichetta da fare rimbalzare sui social: il “Quiet Quitting”.
Avevamo appena iniziato a discutere di “dimissioni di massa” o meglio “Great Resignation” (su cui in realtà almeno in Italia non abbiamo ancora dati certi e statisticamente rilevanti) ed ecco arrivare l’ennesimo trend topic.
Come si distingue la “Great Resignation” dal “Quiet Quitting”?
Da una lato, la Great Resignation è quel ripensamento radicale della condizione lavorativa che il dipendente mette in atto, decidendo di dare una svolta e lasciare tutto per buttarsi su altro: cambiare azienda, cambiare ruolo, persino diventare freelance e lavoratore autonomo o imprenditore lanciando la propria startup. Nei casi più estremi, tipicamente nel periodo pandemico o subito dopo (quando questo fenomeno è iniziato, in particolare in USA) le persone lasciano il lavoro attuale persino senza un’alternativa chiara, semplicemente per prendersi una pausa dallo stress e recuperare il loro equilibrio psicologico o focalizzare meglio cosa vogliono fare da grandi.
Dall’altro lato, il Quiet Quitting non è una inversione di tendenza, ma sulla stessa scia si limita ad abbracciare la filosofia del rimanere in azienda facendo il minimo indispensabile, di fatto il “disengagement” sul posto di lavoro. Una sorta di ribellione con il silenziatore e senza il rischio di perdere la propria entrata economica mensile, riducendo lo stress, il livello di impegno e riequilibrando rispetto a quell’impiego le altre dimensioni della vita privata (in passato magari sacrificate a favore del lavoro).
Come si distingue la “Great Resignation” dal “Quiet Quitting”?
Forse si inizia a correre un po’ troppo sulle etichette per il piacere della notizia e della novità
quando (qui sì i dati e le ricerche sono chiari e da anni) che il lavoro fosse in crisi di senso e di motivazione era evidente ben prima della pandemia (ma forse non faceva notizia).
E a proposito di dibattiti recenti, tutto questo rischia di mescolarsi con la narrazione ricorrente sui giovani, che non avrebbero voglia di lavorare, di fare sacrifici e di affrontare la famosa “gavetta” a cui si sono sottoposte le generazioni precedenti. In realtà parliamo di fenomeni diffusi tra i giovani ma molto più trasversali.
Al di là dell’effettivo peso di great resignation e quiet quitting, le domande per il management e gli HR sono piuttosto chiare:
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come costruire contesti in cui le persone vogliano di nuovo lavorare e vivere bene (magari incontrarsi, visto che ci piace tanto l’ufficio), senza esaurirsi e sfiduciarsi?
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come aumentare il grado di senso, di scopo e di soddisfazione del lavoro che facciamo?
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siamo sicuri che le aziende debbano inseguire, trattenere e motivare le persone quasi come se fossero dei giocattoli a cui è finita la pila inserita nella schiena o forse dovrebbero semplicemente smettere di demotivarle e disilluderle tra poco ascolto, lentezza, burocrazia, management e culture viziate e via dicendo?
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dove sono la concretezza, gli investimenti e l’impegno dopo le tante parole su wellbeing (altro trend topic), smartworking, work-life balance, diversity&inclusion e chi più ne ha ne metta?
Forse dovremmo passare dalle parole e dalle etichette con un # davanti ai fatti.