Dopo lo shock: integrare, non polarizzare

sabato 5 aprile 2025

6 minuti

Dopo lo shock: integrare, non polarizzare

Verso un'organizzazione più adulta

Esattamente 5 anni fa. Nel marzo del 2020, erano i primissimi giorni di pandemia, e ci siamo trovati tutti chiusi in casa da un giorno all’altro.

Mi è capitato di scrivere – in un’intervista per ADNKronos ripresa da La Stampa – che “lo smart working non è la replica di un ufficio con lavoratori remoti“. Era un momento di emergenza, ma anche di consapevolezza nascente. Le case diventavano uffici improvvisati, le connessioni faticavano, ma emergevano prospettive sul lavoro che in ufficio non riuscivamo più ad avere. Quando il capo ufficio ci chiedeva di avvisare per andare in bagno anche quando eravamo a casa nostra abbiamo iniziato a percepire che ci eravamo abituati a essere trattati in modi che non accettavamo altrove.

A valle di quella tragedia che è stata la pandemia è nata una stagione di ripensamento delle nostre organizzazioni. In alcuni casi, forse molti, è stato un gattopardesco cambiare perché tutto resti come prima, ma in altri ci sono stati cambiamenti profondi, radicali, anche estremi. Cinque anni dopo, siamo in tanti abituati a lavorare da casa, o da un coworking o a tornare in sede solo alcuni giorni.

E così quando come negli ultimi mesi alcuni grandi realtà hanno iniziato a mettere in discussione questa scelta e a riportare tutti in ufficio c’è stata una levata di scudi.
Ma la sfida non è più dove lavoriamo. È come. E con quale maturità.

Una memoria lucida

Il rischio delle polarizzazioni

Ormai ogni dibattito, su politica, ambiente, persino sull’alimentazione ha le caratteristiche di una discussione tra tifosi o tra fazioni religiose. Tutto è polarizzato; anche il tema organizzativo sembra oscillare tra due estremi: o sei per il full remote, o per la presenza in sede. O sei per la libertà totale, o per il ritorno al controllo. Ogni scelta che facciamo oggi sembra pretendere una posizione netta.

Ma l’organizzazione non è una fede. È una pratica collettiva, che cambia con le persone e con il tempo.

La domanda che ci dobbiamo fare non è “qual è la formula perfetta?”.
È: “come possiamo imparare da ogni esperienza, senza dover scegliere da che parte stare?”. Le polarizzazioni rassicurano, ma impoveriscono. Invece di discutere solo sul modello, iniziamo a chiederci
quali condizioni servono perché le persone possano lavorare bene, davvero?

L’organizzazione non è una fede. È una pratica collettiva, che cambia con le persone e con il tempo

L’integrazione come nuova competenza

Lavorare oggi significa ascoltare esigenze diverse, anche contraddittorie. Serve tenere insieme orientamento agli obiettivi e spazio di autonomia. Serve mettere a terra decisioni chiare senza smettere di coltivare il dialogo, perché il dialogo allena muscoli organizzativi chiave: la capacità critica, l’ascolto, la capacità di cambiare direzione senza sentire di aver perso.

Per questo serve progettare spazi di autonomia e di allineamento. L’integrazione è diventata una competenza organizzativa fondamentale. E va allenata.
Ci siamo abituati a pensare che l’innovazione arrivi dai modelli. Nel nostro lavoro siamo i primi a poter correre l’errore di affermare che basti adottare il giusto framework, il nuovo modello organizzativo (OKR, Agile, Holacracy, hybrid working, ecc.) per generare automaticamente innovazione, antifragilità, agilità.

In realtà i modelli sono strumenti, non soluzioni. L’innovazione vera nasce dalla qualità delle relazioni, delle conversazioni, della capacità di leggere il contesto e progettare risposte specifiche, concrete, situate. Non c’è salvezza nel modello in sé: c’è nel modo in cui una comunità lo interpreta, lo adatta, lo rende vivo.
Integrare significa passare da una logica di standardizzazione a una logica di aderenza: non imporre una regola, ma creare le condizioni perché quella regola funzioni, in quel team, in quel momento.

L'integrazione è diventata una competenza organizzativa fondamentale. E va allenata

Cosa abbiamo imparato e poi dimenticato

Durante la pandemia abbiamo imparato a fidarci. A comunicare meglio. A lavorare in modo asincrono. A mettere la persona al centro, davvero. Ma rischiamo di dimenticarlo. Oggi molte aziende tornano a contare badge e presenze, dimenticando che la vera metrica è il senso del lavoro. Non è il numero di ore a fare la differenza. È ciò che le riempie: motivazione, entusiasmo, intelligenza, competenza.

E per ottenere questi ingredienti dobbiamo tornare alle domande che avevamo iniziato a farci allora. E invece abbiamo smesso di chiederci “cosa ti serve per lavorare meglio?” e siamo tornati a chiederci “quante ore hai speso?”. Abbiamo perso l’abitudine a interrogarci su ciò che davvero serve per far accadere le cose. Ma le organizzazioni migliori sono quelle che non dimenticano. Che sanno mantenere e rinnovare le pratiche che funzionano.

Cosa ha senso fare insieme nello stesso spazio? Cosa è molto meglio fare senza distrazioni e senza perdere tempo (e generando traffico) spostandosi da una parte all’altra di una città o di una nazione? Come possiamo continuamente ri-progettare gli spazi del lavoro, i tempi delle nostre giornate, gli strumenti con cui interagiamo; e si, qua, c’è la grande nuova variabile di come l’AI Generativa può aiutarci a farlo sempre meglio. 

Abbiamo smesso di chiederci “cosa ti serve per lavorare meglio?” e siamo tornati a chiederci “quante ore hai speso?”

Verso una nuova maturità organizzativa

Non c’è un’unica risposta giusta. C’è la capacità di farsi domande nuove. Di cambiare idea. Di accogliere la complessità. L’innovazione organizzativa non è una ricetta da applicare, ma una pratica continua di ascolto, progettazione, e apprendimento. Chi guida oggi un’organizzazione ha il compito di creare le condizioni per questa maturità diffusa.

Maturità, in questo contesto, significa smettere di cercare formule magiche e iniziare a costruire contesti capaci di apprendere da sé. Significa accettare che l’ibridazione – dei ruoli, degli strumenti, dei modelli – non è una minaccia, ma una risorsa. L’organizzazione del futuro non è né piatta né gerarchica, né centralizzata né distribuita. È tutte queste cose insieme, è capace di diventare ciò che serve, quando serve.

L’organizzazione del futuro non è né piatta né gerarchica, né centralizzata né distribuita

Una responsabilità condivisa

Se vogliamo costruire organizzazioni capaci di stare nel cambiamento, dobbiamo smettere di cercare il modello perfetto. E iniziare a costruire contesti che permettano a ogni team, a ogni persona, di esprimere il meglio di sé. Non si tratta più di scegliere tra due opzioni. Si tratta di imparare a farle dialogare. Ogni giorno, in modo concreto, nel lavoro vero.

Abbiamo bisogno di leader capaci di tenere il dubbio, non di amministrarlo. Di manager che sanno quando guidare e quando lasciare spazio. Di team che imparano insieme cosa significa “funzionare”.

L’organizzazione aperta non è un dogma, ma un cantiere. E noi siamo – ogni giorno – artigiani del suo futuro. La sfida non è vincere il dibattito. È continuare a fare domande migliori.

L’organizzazione aperta non è un dogma, ma un cantiere

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