Affondata sul lavoro

venerdì 17 febbraio 2023

5 minuti

Affondata sul lavoro

Quale direzione per l'Italia di domani?

Mi ha stupito sentire Enrico Letta, candidato del Partito Democratico, mettere il tema del lavoro al centro della campagna elettorale. Non c’è da esserne stupiti: il lavoro è un caposaldo del socialismo e delle forze che in un modo o nell’altro ne sono epigone. Vero. Allora diciamo meglio: mi sono stupito di essermene stupito. Mi sono stupito del modo feticistico con cui ha usato la parola: novecento puro. Il lavoro-feticcio della sinistra italiana che si accinge a misurarsi con la sfida elettorale più delicata degli ultimi cent’anni è  ancora lì: al lavoro a tempo indeterminato come diritto.

Con peraltro, concediamolo, un apprezzabile superamento della battaglia di retroguardia sul superamento dell’art. 18, ma comunque con una volontà di “voler superare il Jobs Act sul modello di quanto fatto in Spagna” che mette al centro la lotta del precariato come primo baluardo essenziale per difendere il quale viene chiesto il voto a cittadine e cittadine.

Sì perché intanto dal lavoro stabile si fugge. Spesso a gambe levate. Non serve alimentare per forza il brusio attorno al trending topic della grande dimissione per vederlo. Per dirne una: gli stessi concorsi pubblici – di cui la cornucopia del ‘fondo di ricovero’ ha ulteriormente decuplicato la frequenza e disponibilità – vanno sempre più spesso deserti, come quelle gare d’appalto in cui il prezziario delle prestazioni è sballato: stipendi da fame, a tutti i livelli. Certo, il lavoro inteso come mera commodity, come scambio di valore che produce reddito, come forma alienata (scusate) di sfruttamento della forza lavoro (r)esiste ancora, ma sempre meno nelle economie evolute si è disposti a (s)vendersi per un piatto di lenticchie.

Nota bene: siamo lontanissimi da dibattiti anch’essi quasi sempre ideologici tra smartworkisti e antismartworkisti, guelfi e ghibellini, illuminati e brunettiani. Qui siamo ancora alla difesa di quella che, piaccia o meno, è una delle - e, forse, già minoritaria - forma di lavoro tra le tante. 

È sotto gli occhi di tutti: l’aspirazione alla realizzazione passa per il lavoro e nel lavoro. La percezione di poter vivere meglio con redditi adeguati e facendo ciò che soddisfa porta ad una diffusa indisponibilità al compromesso. Quindi chissenefrega del posto fisso se quel posto fisso non è (di per sé) uno strumento per costruire la propria identità e realizzare i propri sogni.

Il tutto in una diffusa sensazione di precarietà radicale che non porta a cercare riparo in uno stipendio ‘sicuro’, ché di sicuro non c’è niente e col caro energia anche un fornaio fatica ad arrivare a fine mese, quanto a sbrigarsi a cercare qualcosa che abbia un senso. Già, il senso. Cos’è il senso se non la direzione – l’intenzione o in-tensione che ognuno di noi vuole imprimere alla propria vita? Usando il gergo del design, il senso è l’intento che dovrebbe influenzare le nostre scelte giorno dopo giorno. In un processo iterativo di continui aggiustamenti di tiro, riformulazioni, prove ed errori, fallimenti e successi che lo riformulano continuamente. Un processo esplorativo fluido, antitetico nei presupposti all’idea di immobilismo intrinsecamente implicata nell’idea di lavoro come ‘posto’. Non ho mai sopportato l’espressione “vado a lavorare”: io lavoro sempre, non ci devo “andare”. Il lavoro ‘di senso’ non è mai ‘un posto’, quanto una conversazione tra persone che producono valore, ognuno per le sue capacità e competenze.

Con un livello di permeabilità e attraversamento tra interno e esterno che nelle organizzazioni sta mettendo sempre più in tensione la stessa idea di struttura: la platea del network socio-tecnico che gira attorno alla produzione del valore in azienda è sempre più variegato, gli stakeholder sono sempre di più e più integrati nei processi, i fornitori coprono interi processi aziendali interagendo con pezzi di struttura, alla consulenza ci si rivolge sempre di più per l’outsourcing non solo della manodopera ma del pensiero, e a tutto questo lo strumentario organizzativo fatica ad adattarsi, con sistemi (pensate al famigerato Teams…) che continuano nella loro resistenza al cambiamento e riluttanza al futuro.

Oggi la politica è veramente su un altro pianeta (tanto che questo, di pianeta, incredibilmente non è presente nel dibattito elettorale, ma questa è un’altra storia…).

Sarà che chi la fa, la politica, tende a servire più interessi di corpo e, spesso, a stare dentro i propri retaggi storici, sarà che i tempi di reazione della ‘macchina’ che poi dovrebbe dare corpo alle politiche sono quelli che sono, sarà che la stessa implementazione di misure di ‘emergenza’ come il grande piano dovrebbe riguardare la ‘next generation’ ma è sempre invariabilmente in mano alla past, saranno tutte queste cose, fatto sta che oggi andiamo a scegliere un futuro gruppo dirigente nella migliore delle ipotesi senza visione di futuro e, quando va male male, con visioni di restaurazione del passato. E se la politica è su un altro pianeta, allora non possiamo che fare all in sulla trasformazione delle pratiche, delle persone e delle organizzazioni che necessariamente stanno imparando a proprie spese come assumere modi di fare adattivi. Adattivi alle mille sfighe che si susseguono e – soprattutto – a quelle di cui non sospettiamo nemmeno la possibilità. E se il mercato del lavoro come l’abbiamo conosciuto è un malato terminale, allora non ci resta che staccare la spina e ripartire da zero

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