Una transizione necessaria

venerdì 17 febbraio 2023

1 minuto

Una transizione necessaria

Cambiare le organizzazioni per dare un senso al lavoro

Possiamo ancora permetterci di lavorare e organizzare il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto?

Siamo arrivati di certo troppo tardi a porci una domanda analoga sulla sostenibilità dei nostri modi di produzione e di consumo.
La transizione ecologica ed energetica è diventata un tema davvero rilevante nell’opinione pubblica solo da qualche mese, da quando il costo per il pianeta si è tradotto in un aumento generalizzato delle bollette di luce e gas. Abbiamo sottovalutato i segnali e i numeri che, pure, erano chiarissimi. La politica italiana ha scoperto la rilevanza dei temi ambientali nel momento in cui ha potuto usarla strumentalmente come argomento di campagna elettorale.

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I segnali dell’urgenza di ripensare il lavoro, il suo significato per le persone, per le aziende e per le comunità, sono altrettanto evidenti.

Così come le sfide che ci chiedono di affrontare. La partecipazione alle decisioni strategiche, la responsabilità distribuita, la trasparenza delle informazioni, la collaborazione e la condivisione del sapere, degli obiettivi e delle esperienze, la relazione diretta con utenti, clienti e cittadini, la connessione con il territorio e con il paesaggio: sono gli ingredienti di un lavoro sensato, da cui non sperare di fuggire alla fine del turno, della settimana o per sempre. I dati sull’abbandono del lavoro seguiti alla pandemia da Covid 19 (cfr. McKinsey 2022) sottolineano quanto l’assenza di questi requisiti pesi nella scelta di lasciare il proprio lavoro.

Le ragioni di una generalizzata incapacità di incontrare questi bisogni e di interrogarsi sulla loro soddisfazione dipende dalla forma e dalla struttura che le organizzazioni si danno, dalla cultura organizzativa che le sostiene e dall’assenza di politiche del lavoro adeguate al contesto in cui ci troviamo. C’è bisogno di discutere, progettare e sperimentare le forme e il contenuto di una transizione organizzativa efficace e sostenibile.

Da decenni esistono esempi di imprese e lavoratori che hanno efficacemente e felicemente superato la struttura tayloriana del lavoro frammentato, controllato, gerarchico, basato sulla separazione rigida tra chi pensa il lavoro e chi lo esegue. Anche se tutti, lavoratori, imprenditori, manager, ricercatori concordano sull’inattualità di un’impresa neoliberale che usa un sistema operativo progettato per la società industriale di fine Settecento e sui vantaggi (economici, sociali, ambientali) del suo radicale superamento, le esperienze concrete e documentate di aziende che hanno abbracciato un modello organizzativo più orizzontale basato sull’autonomia crescente delle persone rimangono una minoranza.

Non c’è da stupirsene. Innanzitutto, cambiare l’organizzazione significa rinunciare (per molti di quelli che dovrebbero promuoverla) a una quota rilevante del proprio potere di decisione, di controllo, di comando, e assumere (per molti che quel potere dovrebbero riceverlo) responsabilità, oneri e rischi crescenti.

In secondo luogo, portare e distribuire autonomia e responsabilità dentro le organizzazioni va nella direzione opposta a quella percorsa negli ultimi trent’anni nella cultura manageriale e politica europee: invece che separare lavoro e vita, impresa e comunità, si tratta di dare centralità al lavoro e all’impresa come luoghi di crescita delle persone e di sviluppo della cittadinanza. Se passo la maggior parte del mio tempo in un’azienda in cui non decido come lavorare e non mi assumo responsabilità rilevanti (perché c’è qualcuno, il mio capo, che lo fa per me), per quale motivo, da cittadino, dovrei avere voglia di impegnarmi, decidere in modo autonomo, assumermi responsabilità?

Infine, la transizione verso modi di lavorare e di organizzarsi distribuiti e non gerarchici richiede tempo: non può essere semplicemente stabilita attraverso un cambio d’organigramma, di policy o di processo. Come per quella ecologica, la transizione organizzativa dipende da fattori istituzionali (regole, vincoli e norme), infrastrutturali (architettura organizzativa), ma soprattutto individuali (comportamenti e stili di lavoro) e culturali (valori, pratiche, abitudini).

Deve essere forse per tutto questo che mentre tutto cambiava – il modo di produrre, il modo di consumare, la tecnologia per produrre e consumare – l’unica cosa che si è scelto di lasciare sostanzialmente immutata è la forma del lavoro e della sua organizzazione.

L’esperienza della pandemia da Covid 19, l’ondata di dimissioni di massa che ne è seguita e la grande incertezza delle settimane in cui scriviamo questo righe hanno reso più evidenti le tre ragioni per cui la transizione organizzativa diventerà sempre più necessaria:

  1. Nelle situazioni complesse i sistemi che distribuiscono la decisione hanno maggiori opportunità di sopravvivere, adattarsi e crescere;
  2. Le persone ricercano il significato anche nel loro lavoro, e non solo nel tempo libero; nelle organizzazioni ad alta autonomia le persone partecipano attivamente alla costruzione del senso del loro lavoro: sanno perché fanno quello che fanno e negoziano il modo di farlo sulla base della competenza e della responsabilità che sono disposte ad assumersi e non del posto che occupano nell’organigramma;
  3. La disseminazione e la remotizzazione delle attività (almeno per una parte dei lavori) a cui ci ha obbligato il lockdown ha certificato che il controllo del lavoro non aumenta i risultati e non migliora la produttività; milioni di persone abituate a farsi dire cosa fare e come e ad essere controllate a vista hanno continuato a garantire la produzione anche fuori dall’ufficio e dal radar del proprio manager, usando gli strumenti a disposizione per rimodulare le proprie pratiche di lavoro e di comunicazione e sviluppando bisogni organizzativi e individuali inediti, rispetto ai quali difficilmente si tornerà indietro.

Nei programmi elettorali di partiti e coalizioni nella campagna elettorale estiva che sta per chiudersi di tutto questo non c’è traccia. Al netto di pochissime eccezioni, si parla di lavoro e di impresa in modo generico e indifferenziato, con formule costruite per descrivere condizioni e relazioni che sono mutate radicalmente e che, nella maggior parte dei casi, letteralmente non esistono più.

Sarebbe, invece, interessante conoscere le intenzioni della nostra classe dirigente e del nostro ceto politico su quello che oggi determina il significato e l’esperienza del lavoro e delle organizzazioni per tutti noi che, al loro interno, ci passiamo la vita.

Sarebbe un segno di maturità e di speranza. Prima che anche per questa transizione sia troppo tardi.

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