Difficile immaginare un pensiero che abbia goduto (e tuttora goda) di così cattiva stampa come quello anarchico. Ho chiesto a ChatGPT (imbattibile quando si tratta di stereotipi e bias) di mettersi nei panni dell’italiano medio e di dirmi cosa gli viene in mente se dico “Anarchia”:
Se mi metto nei panni dell’uomo medio italiano, il termine “anarchia” potrebbe evocare una serie di immagini, pensieri e pregiudizi che oscillano tra stereotipi, storia e idee confuse. Ecco alcune associazioni tipiche:
Disordine e Caos
Molti associano l’anarchia al caos, all’assenza totale di regole o a una società dove “ognuno fa quello che vuole”.
Espressioni come “Questo è anarchia!” vengono usate colloquialmente per descrivere situazioni di confusione o mancanza di controllo.
Simbolismo e Stereotipi
Il simbolo della A cerchiata è spesso collegato a movimenti giovanili e contestazioni.
Alcuni possono visualizzare proteste, manifestazioni e scontri di piazza
L’anarchia viene a volte vista in chiave romantica o ribelle, grazie a film come V per Vendetta o a band punk-rock come i Sex Pistols.
Storia e Politica
In Italia, il termine può far pensare agli attentati anarchici storici, come quello del Diana a Milano o il caso di Gaetano Bresci, che assassinò il re Umberto I.
Sospetto e Paura
Per un certo immaginario collettivo, soprattutto in contesti più conservatori, l’anarchia evoca la minaccia di destabilizzazione sociale e violenza.
Alla mia domanda: nient’altro? il mio assistente risponde:
Alcuni potrebbero ricordare che l’anarchia è anche una filosofia che auspica un ordine senza governi, basato sulla cooperazione e sulla libertà individuale. Tuttavia, questa dimensione spesso è poco conosciuta o fraintesa.
Alcuni potrebbero ricordare che l'anarchia è anche una filosofia che auspica un ordine senza governi, basato sulla cooperazione e sulla libertà individuale. Tuttavia, questa dimensione spesso è poco conosciuta o fraintesa.
È proprio nella sua accezione di forma di organizzazione basata sulla cooperazione e, correggendo ChatGPT, sull’autonomia individuale ancora più che sulla libertà individuale, che l’anarchia rischia di diventare, con qualche secolo di ritardo, un modello operativo per le organizzazioni del nostro tempo: almeno quelle che intendano sopravvivere alla sua incertezza permanente. Quest’affermazione, che in una scuola di management o di formazione organizzativa mi causerebbe non pochi problemi, considerata sotto la superficie del pregiudizio risuona nell’esperienza di centinaia di organizzazioni che nel mondo hanno deciso di adottare modelli decentralizzati, non gerarchici e che rinunciano al command & control in favore di scopi e strategia chiari e condivisi. Basate su framework espliciti, come l’olocrazia o lo sociocrazia, o sull’intuizione genuina di imprenditori e lavoratori, queste organizzazioni operano dentro sistemi di mercato, competono, innovano e, generalmente, lo fanno con maggiore impatto e risulti migliori di quelle che adottano modelli tradizionali. Bakunin e Proudhon sarebbero sorpresi di quanto queste organizzazioni abbiano assorbito gli elementi costitutivi dell’anarchia come forma di organizzazione.
Agli autori anarchici e alle loro proposte di organizzazione emergente della società, delle comunità umane e delle imprese è sempre stato imputata una certa ingenuità: impossibile pensare organizzazioni complesse che non siano guidate da un potere centralizzato, basato su una chiara distinzione tra chi decide e controlla e chi esegue. L’esperienza di grandi gruppi industriali, per non parlare di quella di città e comunità territoriali, che sempre più spesso abbracciano modelli orizzontali e organizzati in reti di team e microimprese ad alta autonomia, dice proprio il contrario: di fronte alla crescente complessità degli ecosistemi e alla scarsa prevedibilità degli scenari, funziona meglio chi distribuisce i centri di decisione; chi si struttura su pochi livelli; chi incentiva la responsabilità e premia la competenza e la partecipazione critica e attiva piuttosto che il conformismo e la fedeltà.
Di fronte alla crescente complessità degli ecosistemi e alla scarsa prevedibilità degli scenari, funziona meglio chi distribuisce i centri di decisione.
Nel suo preziosissimo Anarchia come organizzazione, Colin Ward riporta questo aneddoto:
“Il romanziere Nigel Balchin fu invitato una volta a intervenire a un convegno organizzato sul tema degli incentivi nella produzione industriale. In questa occasione mise in evidenza come «gli psicologi delle industrie dovrebbero smetterla di perdere il loro tempo a escogitare trucchi e ingegnosi sistemi di cottimo, e dedicarsi invece a comprendere perché un uomo, tornato a casa dopo una dura giornata di lavoro, trova piacevole e naturale mettersi a zappare nel suo giardino».”
Sono passati un paio di secoli, ma come sappiamo bene, dentro le aziende si continua a “escogitare trucchi” per incentivare e motivare le persone a lavoro: non sembra funzionare troppo, se è vero, come ci dice il V rapporto Censis che l’82,3% dei lavoratori è scontento, insoddisfatto del proprio lavoro e ritiene di meritare di meglio e che, come riporta Gallup, che soltanto l’8% delle persone si sente coinvolto dal proprio lavoro. Per spostare significativamente questi numeri, dovremmo prendere sul serio la storia di Balchin sull’operaio e il suo giardino e ricordarci che tra i primi ad aver dato una risposta alla sua domanda ci sono stati proprio gli anarchici. Ecco cosa, forse, avrebbero suggerito:
Dato un comune bisogno, tutti sono capaci di progettare e sviluppare soluzioni per il suo ordinato soddisfacimento. Disponiamo di un’intelligenza organizzativa innata e la esercitiamo continuamente da quando siamo piccoli. Perché dovremmo rinunciare a una delle nostre migliori capacità proprio nella condizione più prolungata e duratura della nostra esperienza, che è quella dell’essere lavoratori? Nel suo giardino l’operaio progetta autonomamente il suo lavoro e in quel progetto – letteralmente – si proietta. Nessuno gli ha detto come fare, nessuno controlla il suo lavoro. Eppure il giardino è carico di frutti e di bellezza.
Perché dovremmo rinunciare a una delle nostre migliori capacità proprio nella condizione più prolungata e duratura della nostra esperienza, che è quella dell’essere lavoratori?
Se in fabbrica potesse esercitare la stessa quota di autonomia e poter decidere come organizzare il proprio lavoro, troverebbe utile formare squadre, distribuirsi compiti con i colleghi, decidere tempi e modalità. Si accorderebbe con altre squadre, svilupperebbe strategie e metodi per allinearsi e scambiarsi informazioni. Non avrebbe bisogno di un caporeparto, o di un supervisore. E non ne avrebbe bisogno neanche la fabbrica. L’avrebbe deciso insieme agli altri e di quelle decisioni, come di tutte le decisioni che contribuiamo a prendere in prima persona, si sentirebbe responsabile. Non ci sarebbe bisogno di misurare la sua performance, né il suo livello di engagement.
Basterebbe ricordarsi che è un adulto che lavora con adulti. Un cittadino con pieni poteri.
E con un giardino ben coltivato.