Nel mondo del lavoro moderno convivono fino a quattro generazioni diverse – Baby Boomer, X, Y (Millennial) e Z – ognuna con valori, esperienze e aspettative differenti. Questa coesistenza genera da un lato opportunità di innovazione e crescita, dall’altro tensioni comunicative e conflitti interni. Il divario generazionale impatta negativamente sul clima aziendale, sulla produttività e sulla capacità di attrarre e trattenere talenti.
Poornima Luthra – docente alla Copenhagen Business School e autrice di Stop Bias – propone strategie concrete per colmare questo divario, a partire dalla comprensione reciproca tra generazioni.
Il muro più alto, più lungo e più solido al mondo non è la Grande Muraglia cinese, ma quello che separa le generazioni. E, come ogni muro sul pianeta, siamo stati noi a costruirlo. Anzi, ogni giorno che passa ne aggiungiamo un pezzo: fra le pareti domestiche, nella società e soprattutto nell’ambito lavorativo, dove l’incomprensione, la mancanza di comunicazione e talvolta la diffidenza fra colleghe e colleghi di generazioni diverse hanno pesanti ripercussioni sul morale delle persone e sulla produttività delle aziende. Un vecchio proverbio cinese dice “Una generazione pianta gli alberi, un’altra si prende l’ombra”, ma sembra che da qualche parte il meccanismo si sia inceppato.
Sentiamo parlare sempre più spesso della necessità di un patto o alleanza fra generazioni allo scopo di abbattere il muro che le divide ed è probabile che il luogo migliore per stringere quest’alleanza siano proprio le aziende. È possibile riuscirci prima che la prossima generazione si affacci al mondo del lavoro complicando ulteriormente il problema? Secondo Poornima Luthra, che ha dedicato buona parte della propria esperienza professionale a studiare il gap generazionale, la risposta è sì, ma solo ad alcune precise condizioni. Luthra, autrice del saggio Stop Bias, è docente associata presso la Copenhagen Business School, ed è stata definita come uno dei più rilevanti pensatori di business e management al mondo da Thinker50. Sentiamo la sua voce.
Una generazione pianta gli alberi, un’altra si prende l’ombra
Che cos’è il gap generazionale?
Nei nostri luoghi di lavoro – dice Luthra – oggi coesistono quattro generazioni, quella dei baby boomer, la generazione X, la Y e la Z. Ciascuna porta con sé una serie di valori e la memoria di eventi mondiali e nazionali che ne hanno influenzato l’identità e che fanno sì che ogni generazione guardi al lavoro, ai processi, alle gerarchie e alle modalità di comunicazione in una prospettiva molto diversa dalle altre. Questo potenzialmente porta dei vantaggi: da un lato ci sono le generazioni più anziane che hanno la saggezza e l’esperienza, dall’altro le più giovani che arrivano con nuova energia e idee dirompenti. Ciò offre la possibilità di creare notevoli sinergie, ma può dare luogo anche a profondi conflitti, dal momento che le generazioni comunicano in modi diversi e hanno priorità molto diverse.
Prendiamo le generazioni più giovani: non vogliono lavorare necessariamente per un unico datore di lavoro e vogliono essere loro a decidere quando e dove lavorare. Quindi l’impiego flessibile e il gig working sono priorità fondamentali. Inoltre ambiscono a lavorare per organizzazioni che siano fortemente orientate verso uno scopo elevato, di solito legato a questioni come il cambiamento climatico o la sostenibilità, e pretendono che l’azienda si impegni sul serio per perseguirlo, anziché limitarsi a fare greenwashing.
C’è un altro aspetto importante, quello dei feedback: le generazioni più giovani sono abituate a comunicare attraverso la messaggistica, dove ottengono una risposta e dunque una gratificazione istantanee, e anche sul lavoro, soprattutto dai loro responsabili, si aspettano lo stesso tipo di feedback immediato. Che non ottengono quasi mai, perché nelle aziende, all’epoca delle generazioni più anziane, tradizionalmente i feedback si ricevevano durante le riunioni annuali o, nei casi migliori, in quelle trimestrali. Ed ecco che questa diventa un’altra fonte di tensione.
Inoltre c’è un tema col quale Luthra sostiene di essersi dovuta confrontare spesso: le donne che hanno raggiunto posizioni manageriali affermano di essersi fatte strada a fatica, combattendo la discriminazione per sfondare il soffitto di cristallo, ma al tempo stesso riguardo alle loro colleghe più giovani pensano, “Beh, se l’ho fatto io possono riuscirci anche loro”. Tuttavia non è ciò che si aspettano di sentire le lavoratrici appena assunte: loro vogliono un posto di lavoro equo e senza discriminazioni, non essere costrette a costruirsi una carriera facendo i salti mortali come è stato per le precedenti generazioni.
Se l'ho fatto io possono riuscirci anche loro...
Differenze sociali e generazionali nel mondo del lavoro
La generazione più anziana è quella dei baby boomer: molti di loro sono alla soglia della pensione e a volte ricoprono ancora ruoli di responsabilità e fanno parte dei consigli di amministrazione. È la generazione di chi è nato dopo la Seconda Guerra Mondiale, e cresciuto – questo è un tratto importante – con l’esempio di genitori estremamente fedeli alle aziende per cui lavoravano, quindi con l’imprinting della lealtà verso le organizzazioni, sebbene le organizzazioni non fossero sempre altrettanto fedeli verso i loro dipendenti.
Poi viene la generazione X, che cresce con i genitori entrambi lavoratori – era il periodo in cui sempre più donne accedevano al mondo del lavoro – ed entrambi ancora molto fedeli alle proprie aziende, anche quando queste cominciavano a licenziare. Proprio a causa di ciò, questa è la prima generazione in cui la fiducia verso le imprese e la leadership comincia a vacillare: credono più nella propria professione che nell’azienda.
La generazione successiva, la Y, è quella dei millennial, che chiamiamo così perché sono diventati maggiorenni all’inizio del nuovo millennio. Hanno frequentato scuole il cui metodo didattico era molto cambiato rispetto a quelle dei loro genitori, passando da un approccio rigido, di stampo accademico, a uno più olistico che potremmo riassumere nella frase “Ottieni un trofeo per aver partecipato, non necessariamente per aver vinto”: è proprio questo il motivo per cui sia la generazione Y, sia la Z sono definite anche “generazioni trofeo” o “generazioni fragola”, nel senso che basta un minimo di pressione per schiacciarle. Infine ecco la generazione Z, quella cresciuta con la tecnologia e per la quale la tecnologia è tutto.
Tuttavia queste sono generalizzazioni. Per comprendere correttamente le generazioni è molto importante tenere conto del contesto geografico e culturale in cui le singole persone sono cresciute – pensiamo per esempio al diverso impatto che gli attentati dell’11 settembre possono aver avuto su un adolescente americano e su un europeo – oltre che della facilità di accesso alle tecnologie, del divario socioeconomico e di molte altre sfumature.
Comprendere le generazioni oltre gli schemi
Come il gap generazionale influisce sulle aziende
Uno dei punti critici – prosegue Luthra – è la difficoltà di comunicazione. Nelle aziende, le generazioni più anziane in genere usano l’e-mail e sono ancora piuttosto formali in termini di modalità di feedback e di rapporti gerarchici. Le nuove generazioni non concepiscono questo tipo di riverenza: hanno frequentato scuole in cui gli insegnanti erano visti come amici, quindi percepiscono i manager e i leader dell’organizzazione come persone a cui possono accedere in qualsiasi momento e, come detto, si aspettano feedback istantanei. Questo genera un conflitto all’interno dell’organizzazione, perché di fronte a un simile atteggiamento le generazioni più anziane dicono: “Non sono qui per farti da babysitter, non posso sostenerti costantemente. Devi sbrigartela da solo, come ho fatto io”.
Un’altra fonte di attrito è il tema della sostenibilità e della responsabilità sociale delle aziende. La generazione Z ha spesso la percezione di dover pagare il prezzo di ciò che i suoi predecessori hanno fatto all’ambiente e al pianeta, o non hanno fatto per preservarne l’integrità. Quindi i giovani si aspettano che le generazioni più anziane, dato il loro ruolo decisionale in azienda, abbiano il potere di intervenire e il dovere fare qualcosa. E se vedono che questo non succede provano risentimento.
Anche la questione di genere è rilevante. Per esempio, da qualche anno stiamo assistendo a una polarizzazione nel modo in cui maschi e femmine della generazione Z considerano aspetti come la diversità, l’equità e l’inclusione: mentre le ragazze stanno diventando molto più liberali, i loro coetanei maschi diventano più conservatori e percepiscono i princìpi DEI come una sorta di discriminazione al contrario, che rischia di far perdere loro molte opportunità professionali. Questa è una frattura sociale di cui potremmo vedere presto le conseguenze nei luoghi di lavoro.
Comunicazione, sostenibilità, questione di genere
Come ridurre il gap generazionale: soluzioni e strategie
Secondo Poornima Luthra, uno degli aspetti fondamentali è diffondere la consapevolezza dei rispettivi punti di forza. Ogni generazione dà per scontato di essere la migliore: sanno sempre qual è la cosa giusta da fare. La generazione più anziana dice alla più giovane: “Siamo noi ad aver costruito quest’azienda, ad averla sviluppata col nostro sudore e il nostro sangue, e ora voi arrivate e ci dite che dobbiamo fare le cose in modo diverso, che dobbiamo innovare, che dobbiamo eliminare le gerarchie, mettere i tavoli da calciobalilla e le salette per il pisolino”.
Come risolvere il conflitto? Attraverso la comprensione. Le nuove generazioni devono essere messe in condizioni di capire che le aziende per cui lavorano sono state fondate da persone che all’epoca erano anch’esse innovative e che si sono impegnate al massimo per consolidare ed espandere quelle aziende. Allo stesso tempo, anche le generazioni più anziane devono lasciare andare un po’ del proprio potere, concedere ai giovani l’accesso al proprio spazio vitale e permettere loro di partecipare al processo decisionale, accettando il fatto che le soluzioni per il futuro non risiedono nelle cose che hanno fatto in passato.
Abbiamo bisogno di nuovi modi di immaginare il lavoro e le giovani generazioni hanno l’energia e le idee giuste per farlo. Quindi si tratta di capire come possiamo combinare l’esperienza e la pulsione a innovare, superando la scarsa attitudine alla comprensione che genera diffidenza reciproca.
Combinare l’esperienza e la pulsione a innovare, superando la scarsa attitudine alla comprensione che genera diffidenza reciproca
Gestione dei bias cognitivi per favorire il dialogo
Per le aziende è importantissimo sensibilizzare le proprie persone sulle insidie dei bias cognitivi e insegnare loro quantomeno a riconoscerli per poi sforzarsi di limitarli gradualmente. Non è semplice, perché per il fatto stesso di possedere un cervello abbiamo dei bias e questi purtroppo condizionano il modo in cui interagiamo con le persone: i termini che usiamo, le cose che diciamo, il modo in cui comunichiamo anche con il linguaggio del corpo. Il punto è impedire che i bias esercitino un’influenza negativa sulle decisioni che prendiamo e sul modo in cui interagiamo con gli altri.
Per favorire il dialogo intergenerazionale si possono organizzare sessioni di sensibilizzazione sull’essenza profonda di ogni generazione, intesa non solo in termini di età, ma anche nei diversi modi di vivere le fasi cruciali della vita, come diventare genitori o nonni o doversi prendere cura di un genitore malato, oppure arrivare alla soglia della pensione, al fine di stimolare una maggiore empatia verso i colleghi. Una buona parte dei bias cognitivi – sottolinea Luthra – derivano da ciò che crediamo di sapere, o di avere capito, sulle persone che ci circondano: la realtà di solito è molto diversa e avere l’opportunità di conoscerla – anche in un semplice contesto in cui tutte le generazioni si raccontano e rivelano quali sono le loro sfide private, le loro ambizioni professionali, il valore che sperano di apportare sul lavoro – può essere uno strumento potente per eliminare i pregiudizi o quantomeno limitare la loro capacità di condizionarci.
Formazione e mentorship per favorire il ricambio generazionale
Il reverse mentoring è uno dei modi più efficaci per facilitare la comprensione intergenerazionale e la costruzione della fiducia a livello personale: quando un dipendente della vecchia generazione viene affiancato da uno della generazione più giovane che assume il ruolo di mentore, si instaura immediatamente una conversazione che stimola la curiosità e in molti casi anche la produttività. A questo proposito c’è un esempio molto popolare nelle aziende: anni fa il manager di una grande banca ricevette un reverse mentoring da un millennial e da quell’esperienza nacque l’idea del mobile banking, per il semplice fatto che il dipendente più anziano aveva deciso di ascoltare senza pregiudizi le critiche del più giovane verso la rigidità dei rapporti fra banca e cliente così com’erano all’epoca.
Oggi la generazione Z costituisce circa il 40% della popolazione mondiale: un enorme bacino di talenti che accederà al mondo del lavoro. Se non interveniamo sulla filosofia aziendale in modo da abbracciare questa generazione, le organizzazioni diventeranno rapidamente obsolete perché non disporranno di un numero di talenti sostenibile che le metta in grado di affrontare il futuro.
Nel suo primo libro, Diversifying Diversity, Poornima Luthra ha scritto dell’immagine di un matrimonio in cui un ragazzo balla con sua madre. È una bella riunione di famiglia, dice Luthra, con tutte le persone di età diverse che si divertono insieme e celebrano i punti di forza di ciascuna generazione. Come sarebbe se riuscissimo a farlo accadere anche nel nostro luogo di lavoro, se questo fosse il posto in cui le persone di ogni generazione si sentono valorizzate, in cui tutti possono essere se stessi, sentirsi inclusi, sentire di appartenere a qualcosa e perché no, ballare?
Dialogo e reverse mentoring

Martina Fuga – DEI, Bias e Generazioni: costruire un lavoro che unisca, non che divida
É tempo di riconoscere le fratture generazionali che attraversano il mondo del lavoro — e trasformarle in alleanze attive. Nel podcast Future4Work, Martina Fuga dialoga con Luna Esposito, giornalista di Will Media, su questi punti:
- Le generazioni oggi convivono negli spazi di lavoro, ma spesso non si capiscono.
- I più giovani affrontano precarietà, salari fermi e aspettative lontane.
- Ma il punto non è accusarsi a vicenda. Il punto è vedersi davvero.
- Superare i bias, riconoscere i privilegi (senza colpevolizzarli), e fare spazio a una nuova equità intergenerazionale.
- La DEI non è un’etichetta: è uno strumento per costruire ambienti più giusti, più umani, più fertili per tutte e tutti.