Spazi di decisione

martedì 4 giugno 2024

10 minuti

Spazi di decisione

L'arte del fare e l'importanza del dialogo continuo fra contesto e progetto fatto di infinite piccole decisioni

Parlando dell’arte del fare – qualsiasi “fare”, qualsiasi forma di produzione o creazione – l’antropologo Tim Ingold enfatizzava il dialogo continuo fra contesto e progetto di cui l’artigiano è artefice, fatto di infinite piccole decisioni, stratagemmi e astuzie che rendono il progetto sempre meno programma – nel senso di sequenza preordinata di azioni – e il contesto sempre meno oggetto passivo su cui quel programma viene “eseguito”.

Le sedie di paglia create dall’artigiano ci sembrano tutte uguali, e la loro somiglianza reciproca ci pare la dimostrazione della sua maestria. Il prodigio di una produzione quasi-seriale ci sembra dimostrazione del controllo che l’artigiano ha sulla materia, della sua capacità inesausta di piegarla al suo progetto, di proiettare sulla materia l’idea che ha in testa prima ancora di metter mano all’opera. Vecchio bias che forse semplicisticamente attribuiamo a Cartesio: res cogitans che plasma res extensa.

Il dialogo continuo fra contesto e progetto di cui l’artigiano è artefice, fatto di infinite piccole decisioni

In verità le cose non stanno propriamente così.

Con ogni filo di paglia il nostro artigiano intreccia un dialogo che lo porta a decidere continuamente, a trovare soluzioni sempre nuove. Non è che il suo progetto, che esiste prima, si trovi poi ad esser situato in quel contesto, districandosi in quei determinati fili di paglia. Il nostro artigiano non sta eseguendo un piano. Sta procedendo in un cammino. Dice Ingold in Making:

…il produrre non è tanto un assemblaggio quanto una processione, non un costruire una totalità gerarchicamente organizzata partendo da parti separate, ma un portare avanti – camminando su un sentiero in cui ogni passo muove da quello precedente e verso quello successivo su un itinerario che non raggiunge mai la destinazione prefissata…. si tratta non di un’iterazione ma di un itinerazione: produrre è un viaggio, e chi produce un girovago.

Il produrre non è tanto un assemblaggio quanto una processione...

Bene, però questo artigiano mica procede a caso, mica a caso queste sedie vengono fuori tutte (quasi) uguali.

No infatti, non procede a caso e insieme non esegue un programma. La nostra difficoltà a scappare da questa alternativa – o il programma o il caos! – è anch’essa figlia di un sistema di pensiero che tuttora condiziona come lavoriamo, ci organizziamo, facciamo impresa. E come prendiamo, o non prendiamo, le fatidiche decisioni.
Questo sistema di pensiero – del quale per comodità potremmo trovare un altro “colpevole”, ad esempio il celebre papà del management scientifico, Frederick Taylor – esiste per uccidere la varietà e per farlo tenta di spostare le decisioni sempre più “in alto”, nei rarefatti spazi di un pensiero che si vuole scientifico, nelle limpide proiezioni dei vertici di una gerarchia, negli esclusivi ultimi piani dove mega-direttori galattici contemplano seraficamente un mondo di idee che poi
giù prenderanno forma. Sempre più in alto, fino a perdersi, fino a perderci, fino a confondere il senso stesso del decidere, eccellente preludio a “magie idiote, e tuttavia potenti e funeste” come scriveva Christopher Isherwood in un suo capolavoro degli anni Sessanta, parlando degli dèi delle “macchine pensanti”:


La loro magia consiste nel fatto che quando commettono un errore, cioè spesso, lo perpetuano fino a quando diventa un non-errore.

Caveat emptor.

D’accordo, sto un po’ esagerando. Quanto sia tuttora importante sapersi muovere nel “dominio delle best practices”, negli spazi lineari e semplici dove i nessi causa-effetto sono a tutti evidenti o anche in quelli complicati in cui questi nessi vanno trovati e resi manifesti, lo vedremo tra breve riprendendo un celebre articolo di Dave Snowden che propone un framework tuttora imprescindibile per il decision making nell’era dell’incertezza.

O il programma o il caos!

Il punto è che il tema delle decisioni si collega a quello della discrezionalità che il sistema di pensiero “tayloristico” – povero Taylor, era pure un filantropo – ha precisamente voluto espellere, riuscendoci egregiamente e durevolmente – dal mondo del lavoro.

Ciò facendo ha espulso niente meno che l’orizzonte stesso della saggezza, quella saggezza pratica (phronesis o prudentia per i classici) che da qualche anno gode di un certo revival negli studi di scienze umane e nella stessa disciplina manageriale. L’eminente psicologo Barry Schwartz in Practical Wisdom. The Right Way to do the Right Thing, ne descrive l’impatto nell’esercizio di una serie di professioni, dall’istruzione alla medicina, facendo emergere la necessità di uno spazio ricorsivo e riflessivo (già lo aveva fatto Donald Schön in The Reflective Practitioner) che permette all’azione di aggiustarsi strada facendo, letteralmente distribuendo il decision making in un continuum che mette in gioco tutto il professionista e insieme il “sistema” stesso in cui è immerso:

L’alleanza tra ragione ed emozione, che rende possibile la saggezza pratica, si sviluppa nel momento in cui cerchiamo di discernere ciò che accade negli altri o in noi stessi, a volte sbagliando e facendo affinare il nostro giudizio dall’esperienza. Abbiamo bisogno di esperienze che ci incoraggino a farlo.

Il tema delle decisioni si collega a quello della discrezionalità

Questo “affinamento” non ha solo bisogno di tempo per svolgersi ma anche di un contesto che lo preveda e lo accolga.
Se vogliamo che la nostra organizzazione sappia generare decisioni significative e “situate” in qualsiasi punto del sistema, abbiamo bisogno di spazi che sappiano accoglierle, condizioni organizzative che le abilitino. Molto di più su questo tema verrà dai colleghi degli altri articoli di questo speciale. Io mi limito a riprendere la prospettiva dell’ex Capitano della Marina USA David Marquet, poi autore del best seller
The Leader Ship, in cui attraverso il racconto della sua esperienza di comandante di un sommergibile nucleare, riesce a tratteggiare limpidamente l’emergere di azioni “deliberate” attraverso l’esercizio della chiarezza organizzativa e lo sviluppo della competenza di tutti:

Quando diamo istruzioni alle persone, creiamo dipendenza, quando lasciamo loro spazio per le intenzioni, creiamo indipendenza.

Quando diamo istruzioni alle persone, creiamo dipendenza, quando lasciamo loro spazio per le intenzioni, creiamo indipendenza

Ma differenti contesti chiedono differenti approcci decisionali, differenti “stili di leadership” si direbbe nelle scuole di management o negli MBA. 

Dave Snowden e Mary Boone, in un celebre articolo apparso sulla Harvard Business Review (A Leader’s Framework for Decision Making) in cui riprendevano e divulgavano i principi del cosiddetto framework Cynefin, proponevano di articolare l’orizzonte decisionale lungo le direttrici che vanno dall’ordine al disordine del contesto in cui ci si trova agire.

Si passa così da contesti Semplici, in cui le relazioni causa-effetto sono chiare e comprensibili a tutti, regno dei “known knowns”, delle certezze che conosciamo, dove dominano le best practices e dove il decisore (ovunque si trovi nella catena di comando) deve “sentire, categorizzare e rispondere”, a contesti Complicati, in cui le relazioni causa-effetto non sono evidenti a tutti e più d’una risposta è possibile, regno dei “known unknowns”, delle certezze da scoprire, dove dominano le diverse expertise e per decidere occorre “sentire, analizzare e rispondere”.

Ma il decisore si trova spesso in contesti segnati dal disordine: contesti Complessi, spazi dei pattern e delle soluzioni “emergenti”, regno degli “unknown unknowns”, delle sconosciute incertezze, dove non ci sono risposte corrette e dove molte, diverse idee competono fra loro, dove per decidere occorre “esplorare, sentire e rispondere”; e infine contesti Caotici, regno degli “unknowables”, degli inconoscibili che non consentono di tracciare nessi causa/effetto e che dunque impediscono di trovare le risposte “giuste”, contesti ad elevata tensione che chiedono paradossalmente di agire prima di capire, di agire per poter capire, per consentire ai pattern di emergere, in cui al decisore è chiesto di “agire, sentire, rispondere”.

I leader si trovano sempre più a muoversi fra queste diverse dimensioni, spesso anche contemporaneamente, e devono imparare a distinguerle ed articolare coerentemente il proprio spazio decisionale. Boone e Snowden scrivevano per una rivista che rendeva “ovvio” il contesto a cui si rivolgevano: il top e in misura minore il middle management.

Se avete avuto la tenacia di seguirmi in questo ragionamento sapete che la riflessione sul decision making è meno “ovvia” dello spazio istituzionale definito dalle riviste di management, meno concentrata sia nel senso che non riguarda più solo poche persone nell’organizzazione sia nel senso che è frammentata, distribuita lungo l’azione o il processo, sempre dialogica con il contesto.

La progressiva messa a fuoco del decision making come elemento cardine del sistema organizzativo ha però bisogno di smarcarsi dalla pura dimensione della skill personale. Per far questo è meglio lasciare la parola ai compagni e alle compagne di viaggio di questo Speciale decisioni.

Contesti Semplici, Complicati, Complessi, Caotici

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