Decidere nel mondo self-managed: cosa può imparare la politica

lunedì 3 giugno 2024

7 minuti

Decidere nel mondo self-managed: cosa può imparare la politica

Rivedere i paradigmi decisionali sia nel lavoro che nella società per una partecipazione più attiva e responsabile

L’esempio più frequente, quando si vuole sostenere il valore e la possibilità di attuare il self management in azienda, è ricordare che le persone alle quali viene di fatto negata ogni capacità decisionale e ogni autonomia, sono le stesse che, lontane da un ufficio, crescono figli, stipulano mutui, fanno volontariato. Insomma, si prendono ben piene e rotonde responsabilità.

Rigiriamola, una volta tanto, provando a raccontare cosa accade a chi, invece, “pratica” la possibilità di prendere decisioni in maniera diversa proprio in quel mondo del lavoro nel quale si torna a essere bambini bisognosi di indicazioni.
Non bisogna aver fatto la Montessori per sapere che, tra l’altro, i bambini sanno fare benissimo da soli.
Ma andiamo oltre…

Il fatto che in molte organizzazioni si stia affermando un sistema self-managed non è un dettaglio da relegare alle categorie “lavoro e business”. Chiunque operi in contesti che hanno superato il command and control sa benissimo che l’impostazione di fondo, il setting nel quale si opera, inciderà a stretto giro su moltissime sfere della vita.
Perché la pratica modifica il piano cognitivo. Lo sa benissimo chiunque pratichi discipline orientali, figuriamoci chi, in un mondo dove il livello più alto di decisione ci sembra quello democratico, si esercita ogni giorno a ripetersi “è una decisione reversibile o no?” e, nel primo caso, è “Good enough for now, safe enough to try o un danno irrimediabile”?

Mutui, figli, fogli di giornale...

Immaginate di portare il “Safe enough to try” nel dibattito politico, nei piani molteplici sui quali si definisce la nostra sfera civica e nei paradigmi decisionali.

Siamo circondati, come cittadini, da dimensioni di potenziale decisione -democraticamente prevista, nel senso che la prevedono molte carte costituzionali- assolutamente reversibili.
Così reversibili che si potrebbe decidere in forma distribuita e anche con una rapidità notevole. E farlo mille e mille altre volte:
Progress over Perfection.
Ci provammo per una stagione, bellissima, del terzo Municipio a Roma, in quel progetto chiamato Grande come una Città, che ancora sopravvive.

 

Queste dimensioni reversibili, nella nostra esperienza più comune, vengono tuttavia affrontate, per lo più,  come se fossero irreversibili e quindi sottoposte a processi decisionali complessi, farraginosi, inutili. Probabilmente anche vuoti, a un certo punto. L’astensionismo è esattamente figlio di questa percezione di inutile presenza civile.
Se in nulla incido, se non ho mai occasione di essere parte di un pezzo delle decisioni che modificano la realtà, cosa servo a fare al processo democratico?

Reversibile o irreversibile?

Smuovere le sabbie mobili.

Al di là della più ampia crisi di un Pianeta fortemente sotto stress, con numerose coordinate saltate e una scarsissima fiducia verso chi detiene il potere (cose non da poco, ok), le democrazie per come le conosciamo sono in crisi non perché si siano sgretolati i pilastri sui quali erano state edificate ma piuttosto perché i paradigmi di attuazione non si sono adeguati al tempo in nulla, con una ottusità degna di un vecchio “padrone” di azienda di famiglia che si rifiuta di usare internet nel 2024.

Probabilmente è più comodo pensare che i “pilastri”, che poi sono i valori, il purpose, insomma la sostanza profonda, invecchino, piuttosto che domandarsi in che modo le generazioni si possano dotare di strumenti applicativi adeguati. Di pratiche, insomma. E tra queste, quella delle decisioni resta la più centrale.
Vero è che, per pensare alle generazioni, bisogna credere nella forza del “Patto tra Generazioni”, una cosa che risulta abbastanza scomoda alla nostre latitudini dove in media il potere è nelle mani di uomini bianchi e sessantenni piuttosto lontani dall’idea che il mondo gli sopravviva.
Cosa che accadrà, conviene attrezzarsi oggi.

 

Andando a ficcare il naso tra i movimenti che oggi si occupano di ambiente, di diritti, di nuove forme di partecipazione, si scorgono numerosi modelli innovativi. Dove “innovativi” non è nemmeno più un dato, sta solo per “qualcosa che ancora non appartiene alla Politica”. Chi ci ha provato, è caduto sul terzo mandato (fa anche rima).
Non è nemmeno un caso che nella comunicazione politica siano entrati, come falene impazzite sotto alla luce, il tema del vecchio, del rottamabile, del superatissimo, con punte di vaffa.
Sono stati, tutti questi, frammenti di un discorso parzialmente rancoroso verso un Passato non meglio identificato, dove i padri diventavano nemici, i figli sparivano dalla scena nel nome di Ego ipertrofici che -forse anche per generale scarsa qualità della classe politica, alla faccia di ogni ipertrofia- si sono al massimo evoluti in qualche slogan da manifesto 6×3.

Un Patto tra Generazioni è urgente

E torniamo alle organizzazioni self-managed.
Non sono più casi isolati o territorio di CEO visionari. Già rispetto alla letteratura che consideriamo “classica” (è di questi mesi il decennale di
Reinventare le Organizzazioni, di Frédéric Laloux), gli esempi si sono moltiplicati, diversificati, contaminati.
Le nostre organizzazioni, con quella prassi quotidiana che non mette le decisioni nelle sole mani di uomini o donne “soli al comando”, magari anche “forti”, ci insegnano e ci confermano che si può stare meglio, sentire il lavoro che si fa come proprio, allinearlo alla vita e alla persona che siamo da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire.
Cambiare il modo in cui si lavora è possibile. Figuriamoci il modo in cui si vive, da cittadini, progettando insieme il prossimo passo.

 

Non c'è bisogno di nessuno "forte e solo al comando"

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