Ho 50 anni e i cinquantenni sono il partner-medio di Kopernicana.
Ma anche: Kopernicana è la seconda esperienza lavorativa nella quale mi colloco nella fascia più “alta” delle età.
E ancora: è però la prima esperienza lavorativa nella quale gli interlocutori, i clienti, sono all’incirca coetanei o più giovani, probabilmente selezionati a monte dal prodotto, che di fatto è il design organizzativo fortemente orientato al self-management.
Sono considerazioni sui numeri che ribalto nel quotidiano, mossa da un caso personale e professionale.
Un caso “stordente”, nel quale sono professionista, esperta ma anche, drammaticamente (un po’ di dramma ci vuole!), in un ruolo genitoriale. Tra cicli che si chiudono e cicli che si aprono, è stata una stagione di domande.
La storia è questa, la faccio breve.
Circa un anno fa, ho presentato mia figlia a una cliente -ora amica- che aveva necessità di una full stack brand manager sufficientemente junior e sufficientemente flessibile (a “tariffa bassa”).
Pertanto, per varie ragioni, da circa un anno incrocio la mia prole in uno spazio di lavoro. Oltre, ovviamente, a farmi raccontare come va la sua attività principale tra le duemilacinquecentossessantacose che fa per vivere e pagare l’affitto.
Nei nostri scambi, penso spesso al lavoro che portiamo avanti con Kopernicana all’interno delle organizzazioni. Trattandosi di progetti che favoriscono l’evoluzione organizzativa, ovviamente ritengo che abbia immenso valore per le generazioni che ora si affacciano nelle aziende. Ma al tempo stesso, parlandole, mi domando se ciò che viene progettato da cinquantenni e portato in azienda da quarantenni -se va bene trentenni- possa realmente interpretare i bisogni di chi oggi, di anni, ne ha 20. È una domanda da genitore, forse.
Oppure è una domanda generata dal mio modo di essere madre, con una dose di senso di colpa che riassumerei in un “A Seattle non abbiamo fatto abbastanza…”.
Ma sarà vero che a Seattle non abbiamo fatto abbastanza?
Probabilmente come risposta-cibo per il senso di colpa derivante dal non aver cambiato il mondo nei ’90, in questi mesi mi sono accorta di aver trascorso più tempo del dovuto scorrendo reel e meme che prima ignoravo: quelli che prendono i giro le generazioni al lavoro.
A botte di hashtag #generation, ho abbandonato i panda, i cani che devastano le case, i gatti che abbattono gli alberi di Natale, le massime sarcastiche sugli uomini, il procione che ruba, la scimmia che contratta frutta in cambio del telefono di un occidentale e anche gli asini che si mettono in posa. Rinunce che credevo impossibili, nel mio tempo perso sui social.
Ho anche scoperto che davanti ai video e ai meme con le generazioni al lavoro rivedo mia figlia, rivedo me, rivedo i colleghi di un tempo, allora ragazzi. E rido. Rido tantissimo.
Non so se stiamo facendo abbastanza, non so se stiamo progettando davvero per loro ma in qualunque modo lo stiamo facendo, attraverso qualsiasi strumento ci stiamo muovendo, sicuramente ci stiamo ponendo la domanda: ne sappiamo abbastanza? E questo è già qualcosa.
Condivido una piccola selezione di facezie, giusto per sentirmi meno infastidita dalla me stessa che ride da sola.
... a Seattle non abbiamo fatto abbastanza se io, a 50 anni, mi dopo di meme
Competenze
Competenze
Punti di vista
Punti di vista
Urgenze
Urgenze
Compenso
Compenso
Work/Life balance