Ritmo e Rituali
Vorrei condividere con voi qualche riflessione sul significato dei “rituali” che scandiscono il ritmo, o dovrebbero farlo, del nostro lavoro individuale e collettivo.
Una definizione semplice e intuitiva di rituale lo rappresenta come un atto o un insieme di atti eseguiti secondo norme codificate. Per la storia delle religioni e l’antropologia un rito è una rivitalizzazione dell’origine, una sospensione del tempo che fa rivivere il mito.
Bello, direte voi, ma che c’entra con il cambiamento del lavoro, con Brave New Work?
C’entra secondo me, perché la rivoluzione in corso sul modo di lavorare e collaborare porta con sé anche una maggiore consapevolezza sugli strumenti che regolano le interazioni sul lavoro.
Fra questi strumenti c’è ovviamente la “riunione” che, prima della pandemia, raramente abbiamo pensato come un tool che “usiamo” e che quindi possiamo riprogettare a seconda della specifica finalità del nostro riunirci. Oggi questo è più chiaro e sul web fioccano i contributi che descrivono vere e proprie tassonomie dei meeting, una library estesa di “modelli” di riunioni che descrivono interazioni molto diverse a seconda della finalità perseguita (stand-up meeting, brainstorming, riunioni operative, retrospettive…). Tutto ciò ci restituisce il senso di una vasta cassetta degli attrezzi da cui attingere, o anche della possibilità di personalizzare questi attrezzi o addirittura di crearne di nuovi.
Per questo il nostro Aaron ha previsto le Riunioni fra le dimensioni fondamentali del suo OS Canvas. Si potrebbe dire che la riunione sia un microcosmo dell’intera organizzazione, ne rifletta lo stile e la cultura.
Ciò che caratterizza spesso questa nuova consapevolezza delle pratiche che “fanno” una parte spesso significativa del nostro lavoro in azienda, è proprio l’attenzione a quelle azioni ricorrenti che in apertura ho definito rituali. Costituiscono in qualche modo l’architettura che sostiene il contenuto di ciò che vogliamo fare con i colleghi. Conferiscono un ritmo alla collaborazione, come un battito cardiaco. E possono rigenerare, rimettere a nuovo, la cultura dell’organizzazione o del singolo team di lavoro, il suo “mito d’origine” direbbero gli antropologi.
Come semplicissimo esempio di ciò di cui vi sto parlando, vi porto il caso della pratica del check-in. Si tratta di iniziare una riunione con un giro di voce in cui ciascuno fa appunto un “check-in” alla riunione, un’apertura personale magari rispondendo semplicemente alla domanda “come arrivi a questa riunione?”, e allo stesso modo un giro di chiusura “come la lasci?”. In realtà le domande possono essere completamente diverse e anche variare di riunione in riunione (qui per dare un’idea trovate un check-in generator). Qual’è il senso di tutto ciò? È che corriamo tutto il giorno, magari anche solo virtualmente, da una riunione all’altra. Allora il check-in aiuta il nostro cervello a fare la transizione e crea lo spazio della riunione presente “ripulendo” tutto il resto. Inoltre, se spesso abbiamo la sensazione di non conoscere affatto i nostri colleghi pur vedendoli regolarmente, il check-in aiuta a conoscersi piano piano nel tempo.
Le regole di questa pratica sono poche e semplici: una domanda, tutte le persone rispondono, nessuna discussione (è uno “spazio protetto” per ciascuno).
la rivoluzione in corso sul modo di lavorare e collaborare porta con sé anche una maggiore consapevolezza sugli strumenti che regolano le interazioni sul lavoro
Quale tipo di riunione ci serve?
Questo è l’esempio di una pratica semplice, puntuale, “piccola” ma potentemente trasformativa. Ce ne sono di più ampie ed articolate. Ci sono dei “cataloghi” di formati che possono essere usati, assemblati e adattati alle proprie esigenze (fra le più note ci sono le “Liberating Structures”, “strutture che liberano”, formati di interazione pensati per obiettivi specifici). Il punto fondamentale è che la forma di ciò che facciamo sia orientato allo scopo che stiamo perseguendo. Abbiamo bisogno di “progettare” le nostre interazioni pensando alle finalità specifiche per cui ci riuniamo. Forse dovremmo smettere di chiamarle “riunioni” ma usare nomi che connotino i diversi contenuti del nostro riunirci. Come spiega la protagonista di un thriller nordico di qualche anno fa, Il senso di Smilla per la neve, gli europei chiamano “neve” una cosa che nemmeno esiste per gli Inuit groenlandesi. Non c’è la neve, ci sono una dozzina di diverse conformazioni dei cristalli d’acqua ghiacciata che loro chiamano con altrettanti nomi diversi. Così probabilmente dovremmo dare il nome a ciò che facciamo davvero in una riunione: stand-up meeting, brainstorming, retrospettiva, meeting operativo o di progetto….
Dunque quale tipo di riunione ci serve?
Già perché le riunioni dovrebbero servirci, essere al nostro servizio (e non viceversa!).
Pensate alle riunioni che avete fatto nell’ultimo mese. A quali di queste tipologie le assocereste?
- GROUP WORK SESSION. Riunioni di lavoro operativo su attività specifiche
- BRAINSTORM. Generare idee e proposte
- DECISION-SUPPORT MEETING. Gruppo di lavoro convocato per prendere una decisione
- CONVERSATION. Riunioni estemporanee su questioni puntuali
- FORMALITY MEETING. Riunioni ricorrenti a cadenza fissa
- CONVENIENCE MEETING. Riunioni di trasferimento di informazioni che non richiedono discussione (o ne richiedono poca)
Una specifica riunione può appartenere contemporaneamente a più di un tipo.
Pensate al vostro lavoro, al lavoro del vostro team. Fate una mappa delle riunioni secondo queste tipologie (o ragionate su altre tassonomie; l’importante è che inneschino una riflessione e poi un lavoro).
E poi pensate alla forma che dovrebbe avere per servire al meglio l’obiettivo. Lo scopo delle riunioni dovrebbe determinarne la struttura, si diceva, dovrebbe guidarvi verso l’obiettivo prefissato.
Qual è il meeting che impatta di più sulla vostra struttura, sul vostro modo di lavorare? Come potrebbe essere migliorato? Ecco se l’avete individuato, avete il vostro “punto di leva”, il contesto operando sul quale vi garantite il massimo impatto col minore sforzo.