Nel 2021 ho lavorato ad un progetto di comunicazione per CoorDown dal titolo “The Hiring Chain”. La campagna globale, ideata dall’agenzia SMALL di New York e prodotta da Indiana Production, è stata lanciata in occasione della Giornata Mondiale della sindrome di Down. L’ambizione era di rivendicare il diritto al lavoro delle persone con disabilità intellettiva e attivare un network mondiale che aprisse nuove opportunità lavorative, il risultato è stato un impatto senza precedenti e l’esperienza più entusiasmante da quando faccio advocacy.
Sognavamo un risultato concreto, ma anche nei nostri sogni più ambiziosi non avremmo mai immaginato un impatto di queste dimensioni: la campagna ha avuto in poche settimane oltre 5.000.000 visualizzazioni nelle diverse piattaforme: 2.000.000 solo su Linkedin. Persino il Ceo di Linkedin Ryan Roslansky ha deciso di scriverne un post spingendo in prima persona la campagna. Nelle prime 2 settimane, 35.000 persone hanno visitato la piattaforma HiringChain.org e circa 900 aziende da tutto il mondo hanno contattato CoorDown per chiedere informazioni o con l’intenzione di assumere una persona con la sindrome di Down. Solo in Italia i contatti sono stati in poche settimane 50. 20 sono i tirocini e gli inserimenti lavorativi avviati in un solo anno. Una campagna di comunicazione ha fatto più di vent’anni di lavoro associativo.
Grazie a questo progetto, in un anno e mezzo ho avuto l’occasione di frequentare il mondo delle aziende, ho incontrato oltre 30 realtà, i loro manager, responsabili D&I o HR. È stato un punto di osservazione privilegiato che mi ha permesso di farmi un’idea di cosa sta accadendo in Italia su questi temi. È indubbio che l’attenzione al tema della diversity e dell’inclusione sia altissima, è nelle agende di tutte le aziende, ma è anche chiaro che c’è moltissimo lavoro da fare.
Dal mio osservatorio ho tratto alcune considerazioni:
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C’è un malinteso di fondo: la D&I non è un processo, una pratica, non c’è una ricetta in cui si scelgono gli ingredienti e si “fa diversity”.
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Le aziende oggi sentono di doversene occuparsene, ma più perché hanno obiettivi e KPI a cui rispondere o perché tutti se ne occupano. La D&I però non è un compitino: le aziende oggi DEVONO occuparsene perché è la cosa giusta, perché la direzione che ha preso il mondo lo chiede.
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Sono poche le aziende che hanno davvero cultura aziendale in questo senso, ad esclusione delle aziende globali che hanno una sede anche in Italia, la maggior parte si è appena affacciata al tema e procede a tentativi, tra un webinar su questi temi ogni tanto e una dichiarazione d’intenti sui propri canali social.
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C’è un atteggiamento paternalistico diffuso che va sradicato. Occuparsi di D&I non è fare qualcosa per gli altri. La D&I è una cosa che ci riguarda, tutti, molto più di quanto pensiamo.
in un anno e mezzo ho avuto l’occasione di frequentare il mondo delle aziende, ho incontrato oltre 30 realtà, i loro manager, responsabili D&I o HR. È stato un punto di osservazione privilegiato che mi ha permesso di farmi un’idea di cosa sta accadendo in Italia su questi temi.
D&I, DEI o DEIB: gli acronimi della diversity
Negli ultimi due anni c’è stata un’accelerazione incredibile in questo senso e come spesso accade quando il pensiero va più veloce delle azioni anche gli acronimi si aggiornano continuamente oggi da D&I, si è passato a DEI (Diversity, Equity and Inclusion) o ancora a DEIB (Diversity, Equity and Inclusion and Belonging). Non è importante mettersi d’accordo su questo, l’importante è agire, ma personalmente amo quest’ultima perché mi sembra che proponga un pezzettino in più: oltre a accogliere e rappresentare le differente dimensioni della diversità (Diversity) ad assicurarsi che tutti gli individui abbiano accesso alle stesse opportunità e che siano trattati in modo equo (Equity), costruire un ambiente di lavoro dove i pensieri, le idee e le prospettive di tutti contino (Inclusion), il passo in più è creare un contesto culturale in cui tutti si sentano accettati come membri di un gruppo, apprezzati, coinvolti, sentano di appartenere pienamente all’azienda (Belonging).
È inutile negare che in Italia siamo in ritardo rispetto ai cambiamenti che sono attesi dalla società, non c’è abbastanza fuoco su questi temi. In questo anno e mezzo, ho incontrato aziende che mi hanno detto “ho N scoperture aiutatemi a risolvere il ‘problema’”, altre mi hanno detto “ho visto il video, che bello anche io voglio fare diversity”, chissà cosa vorrà dire “Fare diversity”? Altre ancora: “Ci occupiamo di diversity, ma non di disabilità, da dove comincio?”. Poi c’è stata una azienda, che mi ha detto “Ci siamo chiesti: i nostri store rappresentano la comunità in cui viviamo? Nei nostri negozi non rappresentiamo tutti e vogliamo rimediare, voglio che tutti i clienti quando entrano da noi si sentano rappresentati”. Credo che in questa frase ci sia davvero tutto.
Ho un’unica certezza in merito a questo tema: per costruire una cultura inclusiva la diversità va incontrata, va vissuta, va frequentata.
L’incontro con la diversità nella mia esperienza, è stato facilitato, se così posso dire, avevo in braccio Emma, quando mi hanno detto che aveva la sindrome di Down a poche ore dalla sua nascita. Avevo tra le braccia Emma, una neonata, mia figlia, non una diagnosi.
Confesso che nel giro di qualche giorno sono sprofondata in un buco nero, ho fatto il percorso che farebbe chiunque davanti a una notizia simile: preoccupazione per la sua salute, sensi di colpa, paura.
Ho cercato nelle mie conoscenze tutte le immagini e le informazioni con l’etichetta “disabilità”, ma non c’era davvero nulla che potesse parlarmi di quella bambina. Non riuscivo nemmeno a ricordarmi di aver mai incontrato una persona con la sindrome. Scavando poi nei ricordi, ho ritrovato degli incontri, ma ho realizzato che ero stata indifferente all’argomento.
È come se le cose non esistessero finché non capitano a te.
Condivido la mia storia, perché da mamma di una ragazza con disabilità ho vissuto sulla mia pelle pregiudizi e preconcetti, non solo perché li ho subiti, ma anche perché li ho avuti, sono piena di bias, e so che è normale averne. Da mamma di una persona con disabilità sono però anche certa che possiamo conoscerli e controllarli. Sono certa che possiamo lavorare per costruire un mondo più accogliente e rispettoso della diversità.
c’è stata una azienda, che mi ha detto “Ci siamo chiesti: i nostri store rappresentano la comunità in cui viviamo? Nei nostri negozi non rappresentiamo tutti e vogliamo rimediare, voglio che tutti i clienti quando entrano da noi si sentano rappresentati”. Credo che in questa frase ci sia davvero tutto. Ho un’unica certezza in merito a questo tema: per costruire una cultura inclusiva la diversità va incontrata, va vissuta, va frequentata.
Come funzioniamo?
Oggi mi è chiaro che il processo che ho fatto io nella mia esperienza personale, non è diverso da quello che fanno tutti di fronte alla diversità, di fronte al diverso proviamo paura, estraneità, imbarazzo, resistiamo perché quello che non conosciamo ci mette a disagio.
Quando incontriamo qualcosa che non conosciamo cerchiamo nella nostra mente tutte le informazioni possibili per riconoscerlo, per incasellarlo, cerchiamo dei punti di riferimento, e dobbiamo fare i conti con le nostre sovrastrutture, il nostro database di immagini, i nostri bias. E se il nostro immaginario non è ricco di esperienze diverse, facciamo fatica a elaborare atteggiamenti accoglienti.
Pensiamo alle nuove generazioni, siamo tutti consapevoli che sono più accoglienti e pronte alla diversità di noi, e una delle ragioni è senza dubbio che il loro database è più variegato del nostro.
È per questo che credo che la questione sia culturale prima ancora che sociale. È per questo che credo che nelle battaglie per il riconoscimento dei diritti, per l’equità e per l’inclusione, ma anche semplicemente quando in aziende si vuole costruire un ambiente più inclusivo sia fondamentale prima di tutto lavorare sulla cultura. Perché l’inclusione possa realizzarsi davvero e non resti solo un compitino va preparato il terreno, e il terreno è il contesto culturale, possiamo fare tutti i progetti possibili, inserire lavoratori con disabilità in azienda, assumere più donne, o persone di etnie diverse per esempio, ma se il contesto non è pronto ad accoglierli sarà un fallimento. E questo vale per tutte le diversità. Vanno prima scardinati pregiudizi e luoghi comuni poi fatte le azioni.
Quello che ho imparato in questi 18 anni è che non esiste discriminazione senza un preconcetto culturale ed è lì che dobbiamo lavorare se vogliamo cambiare il mondo e renderlo un posto più inclusivo. Parlo degli stessi preconcetti, bias e pregiudizi che avevo io quando è nata mia figlia Emma: ero paralizzata dalle basse aspettative, avevo la testa piena di tutto quello che pensavo mia figlia non potesse essere o non potesse riuscire a fare. Parlo dei pregiudizi che ho subito in quanto donna, madre di tre figli (sono troppi per lavorare!) e per di più di una bambina con disabilità. Quando ho lasciato l’azienda, benché avessi ragioni professionali per farlo, la narrazione di chi è rimasto è che avessi deciso di occuparmi della famiglia e della mia “povera bambina con disabilità”. Ancora oggi quando incontro qualcuno del giro mi sento guardata con condiscendenza e paternalismo.
Tornando ai bias che avevo verso mia figlia, per un po’ ho creduto che fosse l’amore di mamma l’antidoto ai pregiudizi e alle basse aspettative, il motore che mi fece mettere in gioco, invece ho scoperto che è una piccola rivoluzione che possiamo fare tutti.
Come?
AWARENESS
Innanzitutto conoscendo e ri-conoscendo i nostri pregiudizi, i luoghi comuni che circondano le persone diverse da noi. Per evitare di rimanere intrappolati nelle nostre conoscenze e esperienze, nei nostri unconscious bias è necessario affrontare il vuoto dell’imbarazzo e del disagio che proviamo di fronte al diverso colmandolo con la confidenza. E la confidenza con la diversità si alimenta con nuove immagini, nuove narrazioni, il vuoto va riempito di parole, di domande, di relazione in questo modo si incide sul proprio immaginario.
Per questo è necessario lavorare prima di tutto sull’awareness.
LINGUAGGIO
“Le parole sono importanti” è una frase che abbiamo sentito dire spesso. Rischia però di diventare un ritornello vuoto, una frase fatta se non la riempiamo di contenuti. Sento già le voci: “Non renderemo il mondo un posto più inclusivo solo con delle parole?”
È vero non basta smettere di usare un linguaggio discriminatorio, razzista, sessista o omofobo per rendere il nostro mondo più accogliente, ma non bastano nemmeno i progetti di inclusione, le leggi sulle quote rosa, le categorie protette, a fare in modo che l’inclusione si realizzi davvero. Le due cose devono andare di pari passo, ma senza l’una l’altra non basta. Io credo che il linguaggio giochi un ruolo cruciale in questa partita.
Non c’è una ricetta per l’inclusione, non è una pratica che si sviluppa secondo delle regole o dei processi precisi, l’inclusione è prima di tutto un fatto culturale, una mentalità, un approccio. E il linguaggio è l’alfabeto di questa cultura. Senza un linguaggio inclusivo, non c’è cultura inclusiva.
Fino a pochi anni fa in Italia per la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità non c’era nemmeno un termine, non si parlava di “abilismo”, si parlava di razzismo, si parlava di misogenia, di omofobia, di ageismo. Il termine è stato coniato in inglese e poi per anni nei circoli ristretti si usava la versione anglosassone finché si è arrivati alla traduzione che oggi si usa con agio.
Credo che finché le cose non hanno un nome, non esistono. Quando la nostra cultura è stata pronta siamo riusciti anche a trovare il nome. Non so se arriva prima la lingua o prima la cultura, me lo chiedo spesso. La lingua cambia le cose o le cose cambiano la lingua? Forse è un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina…. in questo caso penso che sia un processo che marcia su binari paralleli.
Ancora oggi che il dibattito sul tema è appena avviato, l’interesse sull’argomento è ancora debole. Avete mai sentito dire: io non sono abilista! Sentite dire “io non sono razzista”, “io non sono omofobo”, ma non credo abbiate mai sentito qualcuno “chiamarsi fuori” dall’abilismo. È un segnale che la discriminazione nei confronti della disabilità è ancora un tema di serie B. Un tema poco conosciuto e riconosciuto. Purtroppo.
Quando parlo di linguaggio abilista mi riferisco a due tipi di linguaggi:
Quello discriminatorio: quando vengono usate le parole della disabilità per offendere, parole come “ritardato”, “handicappato”, “mongoloide” le leggo nelle chat di classe, lo sento usare nei cortili delle scuole, negli spogliatoi sportivi, ma succede anche al lavoro, succede in spazi televisivi, ho sentito politici, giornalisti, anche chi con le parole ci lavora, insomma l’abilismo è una cattiva abitudine radicata in tutti i contesti.
Ma c’è un altro tipo di linguaggio abilista travestito da buone intenzioni: parlo del linguaggio paternalistico, specializzante, edulcorante: i diversamente abili, i bambini speciali, gli eroi delle paralimpiadi. È un tipo di linguaggio che etichetta, che separa, che non guarda in faccia la diversità, che non la riconosce. Si crea così un mondo a parte, un mondo da proteggere, un mondo da trattare con delicatezza e paternalismo, un mondo di cui prendersi cura invece che un mondo a misura di tutti, e di cui tutti fanno parte, ognuno con le proprie specificità.
Nel primo caso è evidente che dietro un linguaggio così ci siano dei bias, il pensiero che le persone con disabilità intellettiva siano dei buoni a nulla, persone bisognose di cure e senza nessuna competenza. Ci impegnano tanto per l’inclusione a scuola e per inserire nel mondo del lavoro le persone con disabilità, ma mi chiedo: se poi il contesto culturale non è pronto, se nell’immaginario del compagno di scuola o del collega c’è il pensiero che quella persona sia un “buono a nulla” che tipo di inclusione potremo mai realizzare?
L’uso di entrambi questi tipi di linguaggi alimentano una cultura di pregiudizio e di discriminazione e inquinano la nostra cultura senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Non è una questione linguistica è sostanza, è cultura, è mentalità che si radica.
Le parole non sono mai neutre e definiscono la realtà che ci circonda, non è questione di essere “politically correct” o di forma. È coltivando un linguaggio corretto e rispettoso — soprattutto tra i giovani, nelle scuole, in famiglia, nei contesti lavorativi e in tv, nei giornali, nei social — che parteciperemo alla costruzione di un ambiente inclusivo. Si cambia il linguaggio per cambiare la cultura, si cambia la cultura per cambiare l’atteggiamento.
È un processo a cui partecipiamo tutti, ognuno nel proprio ruolo, tutti hanno il potere di incidere su questo processo e partecipare alla costruzione di una cultura dell’accoglienza e del rispetto di tutte le diversità. Coltivando nuovi codici di comunicazione e un linguaggio inclusivo saremo in grado di cambiare la mentalità, di sradicare pregiudizi, e gettare le basi per costruire una società davvero inclusiva.
ALLEANZA
Dopo aver lavorato sulla consapevolezza e sul linguaggio, è necessario che la cultura si traduca in azioni, altrimenti si inciampa nel diversity washing che è il rischio più grande che in questo momento corrono tutte le aziende.
Dalle intenzioni ai fatti, dunque, e per farlo vanno stretti dei patti, delle alleanze. Non c’è Diversity&Inclusion senza Allyship, perché è l’alleanza a rendere concrete le promesse inclusive. Nella parola alleanza c’è supporto, c’è sostegno, c’è condivisione di intenti, ma soprattutto c’è impegno, impegno a esserci, ad agire.
Essere un alleato significa fare da ponte tra la comunità marginalizzata e gli altri, significa scegliere da che parte stare, nel posto del proprio privilegio o in mezzo a colmare quel gap a fare da ponte per raggiungere chi sta di là. Un alleato è una persona che non fa parte di un gruppo emarginato, ma che vuole agire per partecipare e sostenere chi appartiene a quel gruppo.
Oggi le aziende sono chiamate ad essere degli ally, i singoli individui sono chiamati a esserlo. Per fare la propria parte nel mondo e far sì che la diversità e l’inclusione non siano solo un compitino è di qui che si deve passare.