Iniziamo con una domanda di scenario: quando nasce il vostro progetto, come? In breve, un po’ di storia.
Da sempre Google è vicina alla comunità LGBTQ+ operando su due livelli paralleli ma di uguale importanza: da una parte ha cercato di sviluppare un ambiente di lavoro in cui ognuno possa sentirsi libero di essere ed esprimere se stesso, e soprattutto correttamente rappresentato. Un ambiente che garantisce a persone di qualsiasi orientamento – sessuale e di genere – gli stessi identici diritti. Dall’altra parte, incoraggiando rispetto e inclusione. Siamo convinti, infatti, che le aziende abbiano una grande responsabilità verso la società e la comunità in cui operano: promuovendo rispetto e inclusione, aiutano a proteggere questi valori e tutelare i diritti che le comunità LGBTQ+ hanno acquisito negli anni.
Come si colloca dentro l’azienda e quali sono le attività?
In Italia, il gruppo dei “Priders” – ovvero la community LGBT+ & i suoi alleati in Google – nasce nel 2015. Sin da subito la presenza di alleati all’interno della comunità si è dimostrato un fattore cruciale perché portatore di punti di vista diversi e di continuo e costruttivo confronto. Negli anni, i progetti e le attività sviluppate sono state moltissime, la maggior parte di esse focalizzate a creare le condizioni per favorire la “visibilità”: ancora oggi ci sono persone LGBTQ+ che hanno paura di “uscire fuori dall’armadio”, persone che ci hanno provato e non è andata come speravano, persone che da quell’armadio non usciranno mai. Molte di loro fanno già parte del mondo lavorativo. È dunque cruciale che anche le aziende contribuiscano a che si creino le condizioni affinché si possa fare coming out – almeno nel lavoro – in maniera sicura e serena, con orgoglio.
Perché è importante implementare un programma di Diversity & Inclusion?
Perché genera effetti positivi: le differenze alimentano continuo scambio e tale scambio genera innovazione, che in un’azienda come Google è un elemento vitale. La corretta inclusione delle diversità – in questo caso LGBTQ+ ma è un concetto valido per tutte le diversità – può essere visto come un vero e proprio vantaggio competitivo per le aziende. Ma c’è dell’altro: poter sentirsi liberi di essere ed esprimere se stessi, alleggerisce la mente e il cuore da tante preoccupazioni: permette di incanalare le energie su ciò che conta davvero, per esempio sullo sviluppo del proprio percorso professionale oppure sulla costruzione di relazioni genuine e sincere con i propri colleghi. Il tutto genera un forte senso di appartenenza nei confronti della nostra azienda, che è impossibile quantificare!
Qual è il principale antagonista , quali sono le difficoltà? E come avete fatto a superarle?
Non abbiamo incontrato dei veri e propri antagonisti nel nostro percorso. Sicuramente un fattore cruciale è la preparazione, la conoscenza, l’approfondimento. Una corretta comunicazione inclusiva, la corretta comunicazione delle diversità necessitano molta conoscenza di ciò che si sta cercando di includere o comunicare. Dunque affidarsi a chi ne sapeva più di noi è stato fondamentale: associazioni come Parks Liberi e uguali, Diversity Lab o Milano Pride ci accompagnano quotidianamente in questo percorso, fornendoci strumenti, linguaggi e giusti approcci.
Qual è il ruolo delle minoranze in questi processi?
Preferisco il termine “community” a quello di minoranza e sì, il ruolo della comunità LGBTQ+ all’interno dell’azienda, è fondamentale. Puoi conoscere qualcosa ma la comprendi davvero fino in fondo quando la vivi sulla tua pelle. Il punto di vista delle persone della community è una sorta di stella polare. E’ ciò che serve per tenere la barra sempre dritta, in tutte le nostre attività.
Come coinvolgere quelli “della maggioranza” per aiutare su questi temi che toccano di solito una minoranza in azienda.
Prima di tutto stimolare e coltivare empatia. Io empatizzo e compatisco (nel vero e proprio significato del termine: cum pathos / soffro con te) quando trovo comunanze e non differenze. Raccontare alla comunità eterosessuale le storie delle famiglie omogenitoriali, attraverso le voci delle coppie di mamme e di papà è il modo più efficace per generare empatia: la comunità dei genitori eterossessuali scoprirà con sorpresa che le gioie, i pensieri, i problemi, l’amore… sono gli stessi. Questo è un esempio di attività organizzata in questi anni per avvicinare la “maggioranza” dentro la vita quotidiana della minoranza, per scoprire in fondo che non esistono differenze.
Ok. Adesso immaginiamo che volessimo fare lo stesso in Kopernicana. Quali sono i primi passi per una azienda per dare più attenzione al tema Diversity & Inclusion?
Qualsiasi percorso di Diversity Transformation necessita un bagno di umiltà e la volontà di mettersi in discussione e in ascolto: ascoltare le communities delle minoranze, avvicinarsi e capirne esigenze, ricchezze, difficoltà. Per poi farsi guidare da consulenti che possano facilitare il cambio culturale dell’azienda, ingaggiando innanzi tutto il top management e poi a cascata tutti i dipendenti attraverso attività mirate.
I messaggi inclusivi di un’azienda vengono percepiti autentici e sinceri solo quando c’è coerenza tra il dentro ed il fuori. Dunque, un qualsiasi brand, per poter diffondere valori di Diversity & Inclusion fuori dalla propria azienda, dovrà necessariamente farli propri in maniera sincera e concreta al suo interno. Solo così potrà diventare un vero e proprio motore di cambiamento culturale.