Pratiche di cittadinanza

sabato 5 aprile 2025

7 minuti

Pratiche di cittadinanza

L'era dell'impotenza

L’azione, a differenza della produzione,
 non è mai possibile in isolamento;
essere isolati significa essere privati della capacità di agire

Hannah Arendt

 

 

La democrazia rappresentativa versava, in Occidente e ancor più nel mondo, in una condizione di crisi profonda ben prima dell’arrivo di Donald Trump sulla scena politica americana e internazionale.

Il Democracy Index dell’Economist, definisce l’Italia – insieme a molti altri paesi occidentali – come “flawed”, difettosa, imperfetta. Il medesimo indice, dalla sua istituzione (2006), registra una regressione del tasso di democraticità globale, se così lo vogliamo chiamare, e un corrispettivo crescere e consolidarsi dei regimi autoritari nel mondo. Ma in fondo non abbiamo bisogno di indici, è la cronaca a metterci quotidianamente di fronte alla dura realtà.

Al di là della densa e confusa attualità, ci troviamo comunque ad affrontare una crisi di cittadinanza che è culturale prima ancora che politica.

“Il cittadino – dice Peter Block – è chi produce il futuro, qualcuno che non aspetta, implora o sogna il futuro”.

Crisi di cittadinanza è quindi anzitutto crisi di agency, cioè di poter agire, cioè di potere. Da questo punto di vista si potrebbe dire che Trump rappresenti un’epoca di assenza del potere, un’era dell’impotenza. L’azione, diceva Hannah Arendt, è semplicemente ed esclusivamente ciò che costituisce il mondo comune a tutti noi. Niente potere, niente mondo comune. “Ci relazioniamo con i politici come se fossimo consumatori, non cittadini. Vogliamo che risolvano per noi quei problemi che dovremmo risolvere da soli” dice ancora Peter Block. Siamo impotenti e con noi loro.

Forse in questo momento storico, il limite culturale ma anche performativo di questa passività è più facile leggerlo nel mondo delle organizzazioni dove Kopernicana lavora quotidianamente. La cultura del comando e controllo, la gerarchia formale di persone, il potere rigidamente conferito alle posizioni (“potere su” diceva Mary Parker Follett invece che “potere con”) segna il passo rispetto ai cambiamenti esponenziali del pianeta e dei mercati da decenni, non da anni. E tutto il lavoro che Kopernicana svolge quotidianamente è orientato a ristabilire nelle organizzazioni, a partire da sé stessa,  quella autonomia, cioè quella agency, che le persone tendono ad esercitare naturalmente in famiglia e nella società; persino nelle società dei regimi autoritari che comunque società continuano ad essere, a differenza di quanto avviene nei regimi totalitari propriamente detti – diceva Arendt – in cui la società è diventata un deserto.

Il cittadino è chi produce il futuro, qualcuno che non aspetta, implora o sogna il futuro

Le pratiche, l’unico vero viatico

Per rianimare questa agency le organizzazioni hanno bisogno di pratiche, l’unico vero viatico per un cambiamento di mentalità (troppo spesso brandita come colpevole dell’immobilismo delle aziende: “le nostre persone non hanno il mindset del cambiamento”), hanno bisogno di limiti che abilitano l’iniziativa e quindi la responsabilità delle persone. In grandissima parte queste pratiche sono condivise e co-create. “Libertà è partecipazione” cantava Giorgio Gaber.

Esiste un vasto catalogo di pratiche di questo genere, una possente “library” che le aziende possono scaricare come fossero pezzi di software e assemblare e adattare alle proprie esigenze. Sono pratiche che hanno origine in contesti diversi, provengono da tradizioni differenti, anche inaspettate, come il mondo quacchero che ha ispirato Sociocracy. Provenienze diverse ma con un comune messaggio: la libertà ha bisogno di confini, e questi confini hanno bisogno di essere co-creati.

Ed è così che l’azienda, l’organizzazione, diventa un potenziale microcosmo dell’intera società, un laboratorio di cittadinanza; le sue pratiche sono gli stessi mattoncini che promettono di ricostruire, costantemente, il fragile edificio della cittadinanza nelle nostre democrazie.

Libertà è partecipazione

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