Produrre senso facendo

domenica 18 giugno 2023

9 minuti

Produrre senso facendo

L'organizzazione come esoscheletro del lavoro e la necessità di queste pagine non-esoteriche

Nel suo libro Practical Wisdom lo psicologo Barry Schwartz racconta di una peculiare forma di sciopero in uso in America fra le due guerre: gli operai andavano a lavorare, ma si limitavano, rigorosamente, ad applicare alla lettera il mansionario.
La fabbrica si fermava. Semplicemente non era allora, così come non è oggi, possibile generare valore eseguendo delle istruzioni.

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“Lavorare è riempire lo scarto fra il prescritto e il reale” recita una delle azzeccatissime citazioni che Alberto Gangemi usa per accompagnare il discorso nel suo Organizzazioni aperte.
Una delle molte cose, la scelta delle citazioni, che ho apprezzato nel suo lavoro, ma non certo la principale.
Se dovessi invece indicare la qualità fondamentale di questo libro, a rischio di sembrare banale, direi che è la
facilità.

Alberto Gangemi ha scritto un libro facile e insieme necessario, un libro che non aveva ancora saputo scrivere nessuno. Forse perché mi capita di conoscere la complessità un po’ esoterica di certi manualoni di Organization Design, mi viene da apprezzare la facilità di queste pagine, un facilità difficile da conquistare, proprio perché mappa un territorio ancora oggi invisibile ai più.

“Lavorare è riempire lo scarto fra il prescritto e il reale”

È il territorio delle pratiche che definiscono e sostengono la quotidianità del nostro lavoro che frequentiamo per lo più in maniera inconsapevole; è lo spazio della riflessività sul lavoro che tutti, non solo i professionisti raccontati da Donald A. Schon anni fa nel libro The Reflective Practitioner, possono applicare al proprio lavoro per adattarsi, migliorare, discernere, decidere; è la dimensione di un lavoro consapevole e condiviso, fatto di pratiche ed “oggetti organizzativi” (come le riunioni) che ci “servono” e insieme concorrono a definire la produzione di una cultura in cui siamo immersi.

“L’organizzazione è l’esoscheletro del lavoro”, dice Gangemi parafrasando Latour. Un “apparecchio” che può potenziare il lavoro se governato da chi lavora.
Così ci dice l’autore e poi ci parla dei “cantieri” che ci permettono di co-creare le pratiche capaci di sostenere il lavoro, di adottarne – adattandole – di già esistenti, “scaricandole” da un sempre più vasto catalogo di soluzioni organizzative, pezzi di un software sociale che dischiude nuove possibilità, di “strutture che liberano” e abilitano l’autonomia e la creatività.

 

“L’organizzazione è l’esoscheletro del lavoro”

Il termine cantiere – non resisto alla tentazione della fuga etimologica – viene dal latino cantherius e dal greco kanthelios, l’uno e l’altro locuzioni che indicano animali da soma. Il cavallo e l’asino che portano pesi per noi.
Così il cantiere organizzativo produce pezzi di tecnologia che potenziano il nostro lavoro, pratiche su cui “appoggiare” il peso delle cose da fare, “automazioni” analogiche, forme e routine che ci rendono più sicuri in territori incerti.

La scena che si apre così chiara, così semplice, in Organizzazioni Aperte è quella di un’appropriazione, e in particolare di un’appropriazione condivisa di questi pezzi di tecnologia.

Il termine cantiere - non resisto alla tentazione della fuga etimologica - viene dal latino cantherius e dal greco kanthelios, l’uno e l’altro locuzioni che indicano animali da soma

“Il lavoro progettato da chi lavora”.
Abbiamo riflettuto parecchio sul sottotitolo giusto prima di andare in stampa. Siamo approdati ad una formulazione imperfetta ma, credo, efficace. Imperfetta, perché il termine “progetto” conserva in italiano un senso di freddezza e di determinismo matematico.
Mentre in queste pratiche di appropriazione (che non hanno ancora a che fare con la proprietà) c’è un calore associabile al significato, una rotondità fra gesto, senso e realtà che meglio di altri un certo Heidegger ha saputo catturare: “progettare è comprendersi secondo le proprie possibilità”.

Nel celebre racconto di Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič, il protagonista prigioniero in un gulag viene mandato a costruire un muro nel mezzo del gelo siberiano. Non sa a cosa serva questo muro; è un lavoro alieno che però il protagonista riesce a far suo: si appassiona, si incaponisce a farlo bene, tanto da rientrare tardi al campo con la certezza di venire punito.

Noi umani produciamo senso facendo. E quel che facciamo retroagisce su di noi. Circolarità strana, gioco di specchi, per lo meno fino al momento in cui irrompe un senso altro. Un senso altro, per la verità, irrompe sempre ed è l’altro. Ecco perché il gioco delle Organizzazioni aperte raccontato da Alberto Gangemi nel suo libro è un gioco da giocare insieme, un gioco condiviso che – paradosso – esalta le individualità e i loro talenti.

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