Quando le decisioni vengono prese senza ascoltare chi ne subirà gli effetti, l’inclusione diventa solo facciata. “No Decision Without Us”, campagna di CoorDown, lancia un messaggio potente e universale: l’inclusione autentica richiede partecipazione reale, rappresentanza e potere condiviso.
La parola, a chi l’ha pensata
Conosciamo bene il peso di subire decisioni prese da altri, senza poter esprimere la nostra voce. Lo abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita privata o professionale. Pensiamo a quando, in azienda, si disegna un nuovo processo senza coinvolgere chi poi dovrà utilizzarlo, o quando si organizza una riunione senza coinvolgere le persone che vengono impattate o che meglio conoscono il tema in agenda. Quando si definisce un piano di welfare aziendale senza considerare le esigenze di chi ha necessità specifiche. Quando si promuovono decisioni partecipative, ma nella pratica le voci considerate “scomode” o “complicate” vengono lasciate fuori.
Quando si promuovono decisioni partecipative, ma nella pratica le voci considerate “scomode” o “complicate” vengono lasciate fuori
Le persone con disabilità vivono questa frustrazione ogni giorno. Lo sperimentano nella vita privata, a scuola, al lavoro, negli spazi che abitano, quando viaggiano e nella vita sociale. Dopo anni di lenti ma significativi passi avanti verso un mondo più inclusivo, oggi ci troviamo in un momento storico in cui venti ostili soffiano da oltreoceano: dalla chiusura dei programmi sulla diversità e l’inclusione e le parole bannate dai documenti governativi negli Stati Uniti, al ritorno sancito per decreto di termini come “ritardato” o “idiota” per le disabilità intellettive in Argentina fino ad azioni concrete che spingono le persone con disabilità nel silenzio e nell’invisibilità. È in questo contesto storico che CoorDown, il coordinamento nazionale delle associazioni che si occupano di sindrome di Down, lancia in occasione del World Down Syndrome Day ‘No Decision Without Us’, una campagna di comunicazione per rivendicare il diritto delle persone con disabilità a essere parte attiva dei processi decisionali.
La campagna è un travolgente musical in cui attori e attrici con varie disabilità – guidati dalla giovane protagonista Mia Noelle Rodriguez, 16 anni e dall’attrice e attivista Caterina Scorsone – cantano e mettono in scena una verità semplice e dirompente: ciò che è giusto per alcuni non è sempre giusto per tutti. Se il mondo continuerà a essere disegnato da pochi per pochi non sarà mai a misura di tutti e di tutte. Le persone con disabilità chiedono dunque di essere parte attiva nelle decisioni che plasmano il mondo in cui vivono. Non basta creare politiche o iniziative che pensano alla disabilità. La vera inclusione avviene solo quando le persone con disabilità partecipano alle decisioni che riguardano le loro vite, il loro lavoro e le loro comunità. Chi ha un’esperienza diretta deve essere al centro della conversazione.
Che si tratti di progettare spazi o prodotti, definire politiche o immaginare il futuro del lavoro, l’inclusione deve basarsi su partecipazione ed equa rappresentanza.
La vera inclusione avviene solo quando le persone con disabilità partecipano alle decisioni che riguardano le loro vite, il loro lavoro e le loro comunità
Il potere di pochi: leadership esclusive e soggettività invisibili
Questa contraddizione si inserisce in un contesto sociale e politico più ampio, segnato dal ritorno di leadership populiste e regressive. Assistiamo a una rincorsa di leader che predicano semplificazione e rapidità decisionale, spesso a scapito di ogni processo partecipativo. Si fa strada una chiusura identitaria sotto la bandiera del mito della meritocrazia per cui solo chi rientra in certi canoni “merita” voce in capitolo: la maggioranza dominante, la nazionalità giusta, l’individuo produttivo senza “zavorre”.
In questo clima, le persone che non corrispondono ai modelli dominanti di efficienza, performance e conformità rischiano un’invisibilità crescente. Chiunque abbia una fragilità o richieda accomodamenti viene bollato come peso, come freno alla macchina produttiva lanciata a tutta velocità. E così, nel silenzio generale, interi pezzi di società vengono estromessi dai luoghi dove si decide. Lo stiamo vedendo sia nelle stanze del potere politico sia nelle cabine di regia delle organizzazioni. Da un lato, governi che sbandierano slogan per “il popolo” finiscono per disinvestire proprio nelle politiche che dovrebbero proteggere chi è più fragile: si tagliano fondi al sostegno scolastico inclusivo, si rimandano riforme cruciali, si rivedono al ribasso le tutele per l’inclusione lavorativa, quasi a suggerire che l’inclusione sia un lusso ideologico. Si pensi alla recente decisione dell’amministrazione statunitense di smantellare alcuni programmi chiave di USAID dedicati a inclusione sociale, uguaglianza di genere e disabilità per arrivare all’invito alle aziende europee di adeguarsi alle linee della nuova amministrazione e smantellare le politiche a tutela di persone con disabilità e categorie svantaggiate, considerate dal nuovo presidente americano «discriminazioni illegali». Dall’altro lato, anche nelle organizzazioni serpeggia la tentazione oligarchica: poche figure apicali accentratrici decidono, e se l’accessibilità o i diritti umani intralciano il piano, vengono accantonati senza troppi ripensamenti. L’esempio più eclatante è di ormai qualche anno fa: il nuovo proprietario di un famoso social network non ha esitato a smantellare l’intero team dedicato all’accessibilità della piattaforma, gettando nell’incertezza migliaia di utenti con disabilità che su quello spazio contavano per comunicare. Il messaggio è chiaro: efficienza e profitto prima di tutto. Siamo di fronte a un momento storico pericoloso, che sembra voler relegare le minoranze nel silenzio e nell’invisibilità.
E attenzione: non parliamo solo delle persone con disabilità, ma di chiunque non rientri nel club ristretto dei “vincenti” di turno. Quando il potere si chiude in cerchie sempre più esclusive, la democrazia stessa vacilla. In poche parole, se la capacità di decidere resta appannaggio di pochi simili tra loro, ciò che chiamiamo inclusione diventa una chimera e la collaborazione un valore svuotato di significato.
E così, nel silenzio generale, interi pezzi di società vengono estromessi dai luoghi dove si decide
Dalle parole ai fatti: responsabilità e pratiche inclusive
Di fronte a questo scenario, una campagna di sensibilizzazione per quanto vista da milioni di persone non basta: servono azioni concrete. Le organizzazioni – soprattutto quelle che amano definirsi “aperte” e partecipative – devono assumersi la responsabilità reale di includere tutte le soggettività nei processi decisionali, specialmente le più fragili e marginalizzate.
Ciò significa fare spazio alle voci dissonanti, adattare i luoghi e i tempi della discussione affinché tutti e tutte possano contribuire, e dare potere decisionale (non solo ascolto simbolico) a chi finora è stato escluso. Significa, ad esempio, coinvolgere persone con disabilità nella progettazione di prodotti e servizi sin dall’inizio, assumere figure con vissuti diversi nei ruoli dirigenziali, consultare direttamente le comunità interessate prima di emanare politiche che le riguardano. Non è utopia né carità: è buon senso organizzativo e giustizia sociale. Un ecosistema funziona davvero solo quando ogni sua parte può esprimersi e partecipare; al contrario, un sistema che premia solo la voce di chi sta al vertice e riduce al silenzio tutte le altre persone è destinato a impoverirsi. L’innovazione, l’intelligenza collettiva e persino la tenuta democratica dipendono dalla pluralità di voci al tavolo.
“No Decision Without Us” non è solo lo slogan di una campagna ben riuscita – è un monito che smaschera la distanza tra i valori proclamati e la realtà dei fatti. Sta a noi, come società e come organizzazioni, raccogliere questa sfida provocatoria: passare dall’inclusione di facciata all’inclusione autentica, quella in cui davvero nessuna decisione venga presa senza aver coinvolto tutte le persone che da quella decisione saranno toccate. In gioco non c’è solo il destino delle persone con disabilità, ma la credibilità dei nostri principi di collaborazione, uguaglianza e democrazia. Quando i diritti diventano negoziabili per alcuni, diventano fragili per tutti e per tutte.