Lavorare meglio per vivere meglio

martedì 17 giugno 2025

7 minuti

Lavorare meglio per vivere meglio

Un dialogo con Jacopo Romei

Responsabilità condivisa, autonomia reale e sperimentazione continua: Jacopo Romei, freelance consultant & Co-founder di Scaling Tales, ci accompagna alla scoperta di un nuovo modo di intendere il lavoro, capace di trasformare il benessere individuale in leva di cambiamento organizzativo

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Nell’era della complessità, i modelli organizzativi tradizionali mostrano sempre più spesso i loro limiti. Laddove la burocrazia rallenta i processi e colli di bottiglia dettati dalla gerarchia ostacolano l’innovazione, emergono nuove visioni per trasformare il luogo di lavoro in un terreno di responsabilità condivisa, autonomia e sperimentazione continua.

Tra i protagonisti di questo cambiamento c’è Jacopo Romei, consulente esperto di modelli organizzativi, autore del libro Extreme Contracts e fondatore di diverse iniziative orientate alla trasformazione del lavoro. Il suo approccio pragmatico e provocatorio mira a superare la rigidità delle strutture aziendali tradizionali per abbracciare la complessità in modo intelligente e sostenibile.

«Possiamo cambiare solo ciò che è sotto il nostro controllo. Non possiamo pretendere di trasformare l’intero mondo del lavoro in un colpo solo, ma possiamo migliorare il nostro contesto. Un’organizzazione alla volta» – afferma Romei, sintetizzando così la sua visione pragmatica dell’innovazione. Per lui, la spinta al cambiamento non è solo una vocazione, ma una scelta personale di benessere: «Io voglio star meglio. E lavorare meglio significa vivere meglio».

Non possiamo pretendere di trasformare l’intero mondo del lavoro in un colpo solo, ma possiamo migliorare il nostro contesto

La distanza tra base e vertice: un problema di informazioni

Uno dei problemi centrali del mondo del lavoro contemporaneo è la distanza tra la base operativa e il vertice decisionale. Una distanza che non è solo fisica, ma soprattutto informativa. Come spiega Romei, «spesso i vertici aziendali non hanno idea di cosa accada nelle trincee operative, dove avviene il contatto diretto con clienti e utenti. Allo stesso modo, chi sta in basso non comprende sempre la logica strategica delle decisioni, perché non dispone delle informazioni necessarie».

Questo scollamento si traduce in un duplice problema: da un lato, i manager prendono decisioni senza una piena comprensione del contesto operativo; dall’altro, i lavoratori interpretano in modo distorto le strategie aziendali, percependo talvolta i vertici come distanti e irraggiungibili.

Secondo Romei, una delle sfide principali è riuscire a creare canali informativi trasparenti e sistemi che permettano alla conoscenza di fluire in entrambe le direzioni. Ma soprattutto, è fondamentale che le informazioni raccolte vengano effettivamente utilizzate nei processi decisionali: «Troppo spesso si investe in reportistica e archiviazione, ma poi nessuno utilizza quei dati per prendere decisioni concrete. È uno spreco di risorse e una sconfitta culturale».

Canali informativi trasparenti

Validazione e sperimentazione: strumenti per ridurre il rischio

In un mondo del lavoro sempre più instabile, validare rapidamente idee e progetti è fondamentale. «Non si tratta solo di lanciare un prodotto, ma di ridurre l’esposizione al rischio», spiega Romei. A tal fine, utilizza il metodo del Customer Development, un approccio (sviluppato dallo statunitense Steve Blank, di cui Romei si professa “seguace”) che privilegia la costruzione di una clientela prima ancora di sviluppare il prodotto: in pratica cioè il Customer Development si posiziona in contrapposizione diretta con il cosiddetto Product Development. 

Il cuore del metodo è capire i bisogni e i comportamenti degli utenti prima di investire risorse significative. «Il problema è che molte aziende partono dal prodotto per creare la domanda, ma questa logica è superata. Oggi bisogna partire dall’analisi dei bisogni, perché solo conoscendo davvero il cliente possiamo generare offerte ad hoc».

Romei sottolinea inoltre l’importanza di mantenere leggero e sostenibile il processo di validazione: «Un MVP (Minimum Viable Product) non deve per forza essere complesso o costoso. Può bastare un prototipo rudimentale, come un sito web dimostrativo o un mockup, per testare l’interesse del mercato». L’obiettivo non è dimostrare subito il successo, ma verificare se il percorso intrapreso ha senso, senza rischiare un fallimento irreversibile.

Customer Development VS Product Development

Remote Working: tra autonomia e responsabilità

Il lavoro da remoto è una realtà ormai consolidata, ma continua a sollevare resistenze, soprattutto nelle organizzazioni più tradizionali. Romei ha sviluppato un vero e proprio playbook per il remote working, cercando di bilanciare autonomia e controllo.

«Il vero punto non è dove lavori, ma cosa produci. Non mi interessa se un collaboratore sta a casa o in ufficio, mi interessa che il suo contributo sia tangibile», afferma Romei. Questo approccio richiede però una nuova disciplina: il collaboratore remoto deve garantire disponibilità e qualità della connessione, così come, nel lavoro in presenza, ha il dovere di presentarsi puntualmente in ufficio.

Romei evidenzia inoltre un aspetto culturale cruciale: molte aziende ancora confondono presenza fisica con produttività, un retaggio di un modo di lavorare ormai superato. Per superare queste resistenze, suggerisce di promuovere una cultura aziendale fondata sul risultato, piuttosto che sulla semplice occupazione del tempo.

molte aziende ancora confondono presenza fisica con produttività

Responsabilità condivisa: il coraggio di prendersi carico

Uno dei pilastri del pensiero di Jacopo Romei è il concetto di responsabilità condivisa. Non basta cambiare i modelli organizzativi o introdurre nuove metodologie se non si interviene sulla cultura della responsabilità. Romei è molto chiaro su questo punto: «Non possiamo pretendere di innovare senza un cambiamento radicale nel modo in cui ci assumiamo la responsabilità delle decisioni. La vera sfida è accettare di essere responsabili dei nostri errori».

Questo approccio si collega direttamente alla necessità di strutture organizzative più agili, capaci di redistribuire il potere decisionale tra più livelli. Secondo Romei, infatti, la centralizzazione del potere porta inevitabilmente a un senso di de-responsabilizzazione diffusa. «Quando le decisioni vengono prese da pochi, nessuno si sente davvero responsabile delle conseguenze. Bisogna invece creare contesti dove ognuno si senta autorizzato a proporre, sperimentare e anche sbagliare».

Per questo, Romei propone di creare gruppi di lavoro autonomi, in grado di auto-organizzarsi e di prendere decisioni condivise senza aspettare il via libera da un vertice. Tuttavia, l’autonomia non è un approccio ingenuo e tantomeno buonista e, per questo, non può mai essere priva di regole: «L’autonomia deve sempre accompagnarsi alla responsabilità. Senza responsabilità, il self-management diventa anarchia».

Non possiamo pretendere di innovare senza un cambiamento radicale nel modo in cui ci assumiamo la responsabilità delle decisioni

Autonomia decisionale: leadership distribuita e rischio calcolato

Per Romei, il vero cambiamento parte dalla leadership distribuita. Non si tratta di eliminare i ruoli di guida, ma di trasformarli in motori di partecipazione. «Il leader non deve essere il comandante che impartisce ordini, ma il facilitatore che crea le condizioni per far emergere l’intelligenza collettiva».

Questa visione è alla base della sua idea di autonomia decisionale. Spesso, nelle organizzazioni tradizionali, si tende a concedere autonomia solo a chi occupa posizioni apicali, mentre chi lavora alla base deve eseguire. Questo modello crea un’asimmetria di potere che, paradossalmente, è controproducente anche per i manager stessi. «La vera innovazione non avviene al vertice, ma nella pratica quotidiana del lavoro. Ecco perché bisogna permettere a tutti di essere leader almeno del proprio ambito operativo».

Tuttavia, Romei sottolinea come l’autonomia non debba essere interpretata come licenza di agire senza conseguenze. Ogni scelta deve essere ponderata e supportata da un processo di valutazione del rischio. «Il rischio va calcolato e ridotto attraverso la sperimentazione graduale, ma non si può eliminare del tutto. Bisogna accettare l’idea che non tutte le decisioni porteranno al successo».

Bisogna accettare l’idea che non tutte le decisioni porteranno al successo

La cultura del fallimento: sbagliare in modo intelligente

La sperimentazione continua implica dunque anche l’accettazione di possibili errori. Ma non tutti gli errori sono uguali, e non tutti possono essere considerati accettabili. Romei fa una distinzione importante tra il fallimento utile e il fallimento evitabile: «Il fallimento è utile quando produce apprendimento. Se sbagliamo sempre allo stesso modo, però, non è più sperimentazione, ma incapacità di evolversi».

Per questo motivo, il metodo di lavoro che propone Romei prevede una mappatura degli errori: capire quali decisioni hanno prodotto risultati negativi, quali potevano essere affrontate diversamente e cosa è necessario fare per evitare nuovamente scelte errate. «Accettare l’errore non significa accettare la superficialità. Si deve sbagliare in modo intelligente, sapendo che ogni errore è un investimento di apprendimento».

Romei cita l’esempio dei progetti pilota: invece di lanciare un grande cambiamento in tutta l’azienda, è meglio testarlo su un piccolo gruppo o in una singola unità. «Così facendo, anche se il progetto fallisce, il costo dell’errore resta basso e si possono correggere le criticità prima di estendere il cambiamento a tutta l’organizzazione».

fallimento utile e il fallimento evitabile

Affrontare la complessità: non controllare, ma governare

Un altro tema centrale è il governo della complessità. Le organizzazioni tradizionali tendono a semplificare i problemi attraverso procedure standardizzate e gerarchie rigide. Ma questo approccio non è più sostenibile in un mondo in cui la complessità è diventata una condizione strutturale. «Non possiamo ridurre la complessità, ma possiamo imparare a gestirla in modo intelligente», afferma Romei.

In questo senso, il cambiamento organizzativo non deve puntare alla riduzione del caos, ma alla sua canalizzazione in flussi produttivi. «Serve un approccio ‘olistico’ (le virgolette le mette Romei, mentre pronuncia questo termine, ndr) che tenga conto delle variabili in gioco senza pretendere di incasellarle tutte. La gestione della complessità significa accettare l’incertezza come parte del processo e sviluppare la capacità di adattarsi rapidamente».

Un esempio concreto è il processo decisionale iterativo: invece di aspettare che tutte le informazioni siano disponibili (cosa spesso impossibile), si prendono decisioni graduali, monitorando i risultati e correggendo la rotta se necessario. «Non esiste il piano perfetto – sostiene Romei – esistono solo piani migliorabili. E l’unico modo per migliorare è provare, adattare e riprovare».

L’unico modo per migliorare è provare, adattare e riprovare

Lavorare per obiettivi: autonomia calibrata e responsabilità

Uno degli errori più comuni nelle organizzazioni tradizionali è quello di concentrarsi più sulle procedure che sui risultati concreti. Jacopo Romei sottolinea come questa tendenza possa portare a una vera e propria miopia gestionale, in cui l’aderenza al metodo viene confusa con il raggiungimento degli obiettivi.

«Non possiamo pensare che il metodo in sé garantisca il risultato. Dobbiamo invece creare contesti in cui le persone possano operare con flessibilità, mantenendo però chiaro l’obiettivo finale», afferma Romei. Per lui, il vero cambiamento passa dalla capacità di calibrare l’autonomia in base al grado di responsabilità, utilizzando un modello dinamico e adattabile.

In questo contesto, Romei introduce il concetto del framework di delega a 7 livelli, uno strumento pratico per definire con chiarezza il grado di autonomia concesso in ogni decisione. I livelli vanno da un estremo in cui il leader decide e comunica agli altri l’azione da intraprendere, fino al livello più alto, dove il team prende decisioni in piena autonomia senza bisogno di consultare nessuno. «Il framework aiuta a evitare fraintendimenti e a rendere esplicito il grado di libertà operativo», spiega Romei. «Non si tratta di rinunciare alla guida, ma di distribuirla in modo consapevole».

Grazie a questo modello, l’autonomia non diventa mai anarchia, ma è sempre calibrata in base al contesto e alla maturità del team. «Non è solo questione di dare responsabilità, ma di garantire che ogni persona sappia esattamente quanto margine di azione ha a disposizione», conclude Romei.

Cos'è il framework di delega a 7 livelli

Accountability collettiva: nessuno vince da solo

In un’organizzazione agile, la responsabilità non è mai solo individuale. Anche se il contributo personale è fondamentale, il risultato dipende da un contesto condiviso, da una cultura del supporto reciproco. Romei insiste sul fatto che il vero cambiamento organizzativo non può limitarsi a ridefinire i ruoli, ma deve anche ristrutturare i meccanismi di accountability.

«La responsabilità è un processo collettivo. In un team agile, se qualcosa va storto, non si punta il dito contro il singolo, ma si cerca di capire cosa non ha funzionato nell’interazione tra le parti. Questo non significa deresponsabilizzare, ma piuttosto coinvolgere tutto il gruppo nella risoluzione dei problemi».

Per promuovere questa cultura, Romei suggerisce di adottare pratiche come i debriefing regolari, in cui i team analizzano insieme successi e fallimenti, senza giudizi individuali, ma con un’analisi costruttiva. «Capire insieme cosa non ha funzionato è il primo passo per evitare errori ripetuti e per promuovere un approccio di apprendimento continuo».

La responsabilità è un processo collettivo

Prospettive future: verso organizzazioni post-burocratiche

L’orizzonte che si profila è quello di un modello organizzativo post-burocratico, dove il controllo formale lascia il posto a una gestione più fluida e adattiva. Romei ritiene che il cambiamento sia già in atto, ma che ci voglia tempo perché si consolidi come prassi comune.

«Le aziende più innovative stanno già sperimentando modelli agili e distribuiti, ma è fondamentale non confondere il metodo con la cultura. Non basta introdurre pratiche di self-management o remote working: serve una trasformazione culturale che modifichi il modo stesso di concepire il lavoro e le relazioni tra le persone».

Il rischio è quello di cadere nel “managerialismo agile”, dove si adottano strumenti nuovi con mentalità vecchie. Per evitare questo pericolo, Romei suggerisce di partire sempre da una domanda: “Come possiamo creare valore in modo sostenibile?”. Questa prospettiva consente di evitare l’adozione acritica di strumenti e di concentrarsi invece sugli impatti reali.

Il futuro del lavoro, secondo Jacopo Romei, sarà segnato dalla capacità di ridurre i costi cognitivi e semplificare i processi senza perdere complessità. Non si tratta di scegliere tra agilità e stabilità, ma di trovare un equilibrio tra autonomia individuale e responsabilità collettiva.

Non si tratta di scegliere tra agilità e stabilità, ma di trovare un equilibrio tra autonomia individuale e responsabilità collettiva

L’innovazione come scelta di benessere

Per Romei, innovare non è solo una questione di competitività o di efficienza, ma una scelta consapevole per migliorare la qualità della vita. «Lavorare meglio significa vivere meglio», ripete. Il cambiamento organizzativo è quindi, prima di tutto, un atto di responsabilità personale: se vogliamo un mondo del lavoro più umano e sostenibile, dobbiamo iniziare a cambiare il nostro modo di lavorare, un passo alla volta.

E forse è proprio questa la lezione più preziosa: non possiamo trasformare il sistema tutto insieme, ma possiamo fare la nostra parte per renderlo migliore, innescando un cambiamento che parta dalle pratiche quotidiane e dalle scelte personali. Perché, alla fine, l’innovazione non è mai solo un fatto tecnico, ma una scelta etica.

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Le aziende sono fatte di persone. Quando si affronta un processo di trasformazione organizzativa, per quanto sia forte il commitment, arriva sempre il momento in cui si inizia a lavorare con i gruppi umani. E non sempre i gruppi umani sentono la stessa “spinta” trasformativa dei manager. Entrare nelle organizzazioni per trasformarle è vincere prima di tutto questa resistenza. E’ avere chiari i punti di vista, i punti chiave della stessa esperienza vissuta da punti di osservazioni diversi e le necessità su cui trovare un equilibrio, una direzione su cui costruire un cammino di movimento e cambiamento che funzioni per le parti coinvolte Laura Bolletta, agile coach, faciliatrice, service & organizational designer, ricercatrice etnografica, racconta il lavoro con i team, dal primo approccio a come si raggiungono i risultati che ci fanno dire “eppur si muove”

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