Due storie brevi
Qualche settimana fa mi trovavo insieme a un mio collega nella sede di un’importante banca. Durante una pausa caffè tra un workshop e l’altro, ho avuto l’occasione di assistere a uno scampolo di conversazione molto interessante. Un dirigente, che secondo il processo probabilmente non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi lì, lamentava un problema con le nuove generazioni. Attirato dal tema, mi sono avvicinato, quasi facendo finta di niente.
“… quando sono entrato in banca io, venticinque anni fa, l’ho fatto perché ero alla ricerca di stabilità e di uno stipendio sicuro. Oggi se ne vanno da un’altra parte se non hanno lo smartworking.”
A questa presa di consapevolezza ha fatto seguito un’espressione di autentica incomprensione, del tutto priva della necessità di sottotesti.
Un paio di giorni dopo, in maniera piuttosto sincronica, vengo a sapere tramite la mia compagna che un nostro amico, trentunenne capitano della Guardia di Finanza, l’indomani avrebbe avuto il primo colloquio con un colosso dell’e-commerce. Quello che inizia con la A, per intenderci. Quella sera stessa, a cena con i nostri genitori, abbiamo raccontato la storia del nostro amico. La reazione prevista è arrivata con puntualità: “Ma è pazzo?”
Provare a dare una spiegazione per affrancare una decisione di questo tipo è stato tanto faticoso quanto improduttivo.
Esiste un filo rosso tra queste due storie. Un filo rosso che passa attraverso decenni in cui si è pensato al lavoro in una determinata maniera, attraverso lo sbigottimento delle dirigenze di fronte a dimissioni che non si possono spiegare e attraverso l’incredulità dei nostri genitori che hanno lavorato quarant’anni per la stessa azienda; supera, nella sua interezza, un divario generazionale enorme – e destinato ad ampliarsi – e termina la sua corsa di fronte a una domanda: le generazioni precedenti, ma soprattutto le aziende, sanno cosa cercano nel lavoro, oggi, i giovani?
ho avuto l’occasione di assistere a uno scampolo di conversazione molto interessante...
I bisogni dei giovani
Per sapere cosa cercano, sarebbe utile indagare i loro bisogni e le condizioni in cui si trovano a operare. Mi viene incontro un articolo di Silvia Pagliuca, apparso nel giugno di quest’anno su Il Sole 24 Ore e dal titolo Giovani e lavoro, la generazione interrotta, in cui si fa riferimento al report di Deloitte GenZ e Millennials 2023 e dal quale possiamo tirare fuori qualche dato interessante:
- Il 71% dei Millennials ritiene che sarà molto difficile o impossibile mettere su famiglia;
- Il 70% dei Millennials pensa che sarà impossibile comprare una casa entro il 2024;
- Il 37% della GenZ e il 23% dei Millennials ha bisogno di un secondo lavoro per integrare le – insufficienti – entrate del primo.
E, come abbiamo imparato dalla storia del nostro amico giallo-fiammato, nemmeno il caro e vecchio posto fisso è in grado di aiutarci, in questo senso. Sono lontani i tempi in cui, come racconta una serie meravigliosa di meme, era possibile comprare una casa con quattro monete e dodici carote. Che sia chiaro: non stiamo parlando di acquistare un’auto all’ultimo grido o della seconda casa in Sardegna, ma di un tetto sopra la testa e di un pavimento dove camminare. Il primo bisogno dei giovani, dunque, è quello della solidità economica.
Il secondo – grande – bisogno è quello di crescere. Una volta trovato un posto di lavoro ai limiti della soddisfazione, i margini per dei passi avanti nella carriera sono sempre più risicati. Questo avviene soprattutto in settori particolarmente polverosi, dove la colla tra i fondoschiena della classe dirigenziale e le loro poltrone è ancora di una solidità inattaccabile o dove, per farti contento e non lasciarti andare via, vengono creati ad hoc dei fantomatici manager del nulla, un processo simile alla concessione di investiture medievali in assenza di un reale feudo.
Chiedere – ma soprattutto ottenere – un aumento equivale ad accarezzare la criniera folta di una chimera inferocita. Io stesso, una volta, ho provato a farlo. Mi sono state restituite tante cose, ma l’unica che ricordo nitidamente è questa: “Dobbiamo tenere duro insieme, sudare per la maglia e comportarci come una famiglia.” Mi sono guardato intorno e, dal momento in cui non ci trovavamo in uno spogliatoio di San Siro, sono uscito dall’ufficio direzionale non avendo ben chiaro cosa effettivamente fosse successo. Due mesi dopo, sono uscito ancora una volta da quello stesso ufficio direzionale, questa volta senza un lavoro.
Il terzo – enorme – bisogno è il bisogno di riconoscimento. Il riconoscimento, nello specifico, sia dei nuovi valori che rappresentano – Diversity, Equity & Inclusion, per esempio – e sia dello spazio che questi valori avranno nel nuovo mondo del lavoro. La ricerca di Deloitte, in sostanza, ci dice che per i giovani il lavoro è ancora importante e ha un ruolo centrale nella definizione dell’identità, ma non è tutto. Prima vengono amici, famiglia e le condizioni in cui si lavora. Tra queste, alcuni sono più importanti di altre:
- Flessibilità: chi lavora, anche se è giovane o molto giovane, non è un bambino e come tale ha una sua capacità di organizzarsi e di organizzare il lavoro. Non deve essere necessariamente tenuto per mano, se non lo ritiene necessario. Quando possibile, le aziende dovrebbero smettere di imporre modi di lavorare ottocenteschi nel pensiero e nell’azione, e permettere ai giovani di trovare indipendentemente le modalità in cui esprimere al meglio il proprio potenziale.
- Equilibrio tra lavoro e vita privata: sono sempre meno – anche tra i meno giovani, diciamolo – coloro che risponderebbero a una mail arrivata il martedì sera, dopo l’orario lavorativo. Il lavoro è il lavoro, la vita privata è la vita privata. Difficile – e auspicabile – che in futuro tra questi aspetti ci sia soluzione di continuità.
- Ricerca di senso e capacità di contribuire ai propri obiettivi: nonostante abbia funzionato per decenni, ora non è più possibile dire alle persone ciò che devono fare senza dare loro delle spiegazioni. Finalmente, aggiungerei. Dimenticatevi “è così perché è così” e provate a offrire loro la capacità di contribuire ai loro obiettivi, a quelli della direzione e – perché no – alla strategia aziendale.
- Sicurezza psicologica: una condizione che si concretizza solamente in un ambiente di lavoro sano e lontano dalle dinamiche tossico-novecentesche che conosciamo fin troppo bene. Creare un ambiente accogliente aiuta l’emergere di idee, opinioni e proposte innovative, e aiuta a prevenire stress, frustrazione, stanchezza fisica ed emotiva. Vuoi vedere che magari le persone se ne vanno anche per questo?
Questi tre macrobisogni – stabilità finanziaria, crescita professionale e riconoscimento – sono alla base di ciò che la gioventù lavorativa sta cercando. Ci sono aziende che hanno intercettato queste necessità e che si stanno muovendo in questa direzione, ma moltissime faticano a capire come accogliere i nuovi talenti, come mantenerli creando le migliori condizioni possibili e come, soprattutto, far dialogare delle generazioni che, da alcuni punti di vista, parlano lingue molto diverse.
Qualche dato
Due soluzioni
Il nodo – doppio – è piuttosto difficile da sciogliere. Da dove dovrebbe partire un’azienda? Dal mio punto di vista, sono due gli strumenti a disposizione di chi vuole provare a sciogliere questo nodo:
- La cartografia organizzativa: che siano bisogni e pain point legati al gap generazionale o legati a qualsiasi altro aspetto dell’esperienza lavorativa nella vostra organizzazione, non esiste uno strumento più efficace delle cartografia organizzativa per farli emergere e rendere gli insight realmente azionabili. Lasciate che siano le vostre persone a raccontare l’organizzazione attraverso interviste, ricerche e analisi sul campo. Emergeranno aspetti inimmaginabili.
- Gli OKR: gli Objectives & Key Results sono strumenti molto utili se si vuole imparare a gestire il lavoro in maniera diversa e più intelligente. Definire ciò che è prioritario e legarvi dei risultati chiave permetterà a tutto il team, a qualsiasi livello, di organizzare meglio l’intera esperienza lavorativa. Poi, il fatto che vengano definiti insieme, dall’intero team, li rende unici nell’aumentare ingaggio e partecipazione. Sì, anche lo stagista entrato da due mesi avrà il suo ruolo alla scrittura degli OKR, e il contributo che genererà sarà sorprendente.
Da dove dovrebbe partire un’azienda?
Che piaccia o meno ai dirigenti delle banche e ai miei genitori, alcuni equilibri stanno cambiando. In alcuni casi, anche in maniera inaspettata. Come abbiamo visto, il problema non sta nel rendersi conto di questo cambiamento, sta nel trovare delle soluzioni che siano adatte a tutte le molteplici e sfaccettate necessità di un’organizzazione, per farsi trovare pronti ad abbracciare non solo il futuro del lavoro, ma anche coloro che ne saranno protagonisti. Per farlo davvero, non esistono rimedi che funzionano indistintamente per tutte le organizzazioni. Ogni organizzazione è diversa e unica, a modo suo. Rispettare le caratteristiche di ognuna è il primo passo di un percorso sempre diverso, ricco di sfide e di insidie, dietro alle quali sarà un piacere scoprire il valore profondo e genuino delle vostre persone. Di tutte, anche dei più giovani.