Contributo VS Conformità / Outcome VS Output – Percorsi della transizione

venerdì 17 febbraio 2023

4 minuti

Contributo VS Conformità / Outcome VS Output

Percorsi della transizione: dalla burocrazia all'umanocrazia

Nel loro Humanocracy, Gary Hamel e Michele Zanini descrivono le implicazioni della transizione dalla burocrazia, ancora oggi “la più diffusa struttura sociale sul pianeta”, a quella che chiamano appunto umanocrazia. Esemplificano la trasformazione con uno schema essenziale che ho imparato ad apprezzare ed usare per la sua capacità di rappresentare i due fronti della metamorfosi, quella interna all’organizzazione e quella rivolta all’esterno.

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Humanocracy - Gary Hamel e Michele Zanini

Humanocracy - Gary Hamel e Michele Zanini

In una burocrazia, l’individuo è uno strumento dell’istituzione per produrre un risultato. Questa semplice constatazione svela profonde implicazioni per le persone. Il massimo valore per un’organizzazione di questo tipo è la conformità; massimizzare la conformità delle persone al sistema significa produrre collettivamente più risultati, generare maggiori output.

In una umanocrazia è l’organizzazione ad essere strumento nelle mani della persona affinché generi un maggiore impatto. Qui “l’obiettivo è massimizzare il contributo, non la conformità”, tutto è orientato ad un outcome invece che a degli output: l’iniziativa personale è il centro propulsore di un’organizzazione protesa verso uno scopo.

Lo schema descrive un doppio cambio di paradigma. Se c’è chiarezza e competenza, se accountabilities e reciproci confini sono definiti e dinamicamente aggiornati, allora tutto nell’organizzazione diventa “strumento” nelle mani della persona perché possa interpretare il proprio ruolo, divenendone effettivamente “proprietario”, agendolo responsabilmente ed autonomamente.

Il secondo cambio di paradigma riguarda ovviamente l’esterno dell’organizzazione, il suo rapportarsi con i mercati e con i clienti. Celebre è la massima di Henry Ford: “ogni cliente può ottenere una Ford T colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero”.
Siamo all’opposto logico della customer centricity, epitaffio di un mondo che non c’è più. Eppure la forma sociale concepita allora è ancora viva e presente fra noi, è tutt’oggi la tecnologia sociale di default di qualsiasi organizzazione, anche di una micro-impresa; muovendo da questo default mode ci troviamo comunque tutti costretti a fare una transizione, appunto, per restare al passo dei tempi. Qui entra allora in gioco il secondo cambio di paradigma. Non solo risultati, ma soprattutto impatto, che naturalmente è fatto di risultati quantitativamente misurabili, come insegna il metodo OKR, ma orientati ad un obiettivo qualitativo, direi trascendente se non corressi il rischio di essere rimproverato dai nostri OKR experts (e va bene, chiamiamolo “sfidante”).

Questo obiettivo “più grande di noi” mette in dialogo l’organizzazione, e la persona che la interpreta, con uno scenario competitivo radicalmente diverso da quello ritratto dalla celebre citazione fordiana.

Il gioco è diventato ecosistemico, “infinito” come dice Simon Sinek in un suo libro recente. Si potrebbe dire che preservare il terreno di gioco, piuttosto che battere l’avversario, sia il vero obiettivo condiviso, come quando si gioca a racchettoni in riva al mare e la partita consiste nel non far cadere la pallina a terra. Così entra in campo il tema della sostenibilità del business e dell’attività di qualsiasi tipo di organizzazione, sostenibilità finanziaria, ecologica e umana, dove l’ultimo fattore dell’equazione – quello umano – di nuovo chiama in causa il “dentro” come il “fuori” dell’organizzazione: business sostenibili sono tali se sono al servizio delle persone, siano essi lavoratori o clienti.

Tutto meraviglioso, direte voi, ma questi argomenti stanno per essere spazzati via dalla tempesta perfetta che si sta abbattendo sui nostri mercati.

I costi dell’energia, l’irreperibilità dei materiali, l’inflazione che taglierà le gambe ai consumi, sono tutte forze gigantesche che non lasceranno scampo agli imprenditori togliendo alla fonte le risorse per potersi occupare di sostenibilità, dentro e fuori l’organizzazione. Parrebbe in effetti un duro bagno di realismo. Basta un rapido sguardo alle filiere con cui ciascuno di noi è connesso nell’esercizio della propria attività – nel mio caso, la carta – per rendersi conto che le forze in gioco sono di una scala incommensurabile ai nostri business.

C’è però un altro realismo, non così raro se si parla con imprenditori e manager, che guarda alle persone come unica vera sorgente di innovazione nelle imprese. Per citare ancora Hamel e Zanini: “Qualunque cosa la vostra organizzazione faccia o venda, la sua vera occupazione è la crescita delle persone”. O anche Taichi Ohno, inventore decenni fa del Toyota Production System: “il nostro stile non è raggiungere risultati lavorando sodo. Il nostro sistema dice piuttosto che non ci sono limiti alla creatività delle persone. I nostri operai non vengono in Toyota per lavorare, vengono per pensare”.

Kopernicana lavora con le organizzazioni sugli spazi di interazione fra le persone, per incrementarne competenza, autonomia e orientamento allo scopo (questa è la triade di componenti che Daniel Pink usa in Drive per definire la motivazione intrinseca di ciascuno di noi).
Questi spazi di interazione sono fatti di pratiche e di strumenti che letteralmente formano una tecnologia.
Se diciamo che il modo in cui collaboriamo in azienda è una forma di tecnologia, una tecnologia sociale, un assemblaggio di pratiche che “usiamo”, ci mettiamo immediatamente in una posizione di vantaggio nella battaglia quotidiana per governare i nostri flussi di lavoro, individuali e collettivi e per convogliare in una strategia rivoluzionaria le decine, centinaia, migliaia di idee che l’intelligenza collettiva della nostra organizzazione ogni giorno produce. Lavorare su queste componenti, insieme alle persone, vuol dire rendere capaci le organizzazioni di evolvere, qualunque siano le nubi che si stanno addensando all’orizzonte, o proprio in vista della tempesta.

Cosa sono questi “oggetti” su cui lavoriamo incessantemente? Ne parleremo molto nei mesi a venire.

Qui, a mo’ di esempio, propongo di pensare alla “riunione” che, prima della pandemia, raramente abbiamo pensato come un tool che “usiamo” e che quindi possiamo riprogettare a seconda della specifica finalità del nostro riunirci. Oggi questo è più chiaro e sul web fioccano i contributi che descrivono vere e proprie tassonomie dei meeting, una library estesa di “modelli” di riunioni che descrivono interazioni molto diverse a seconda della finalità perseguita (stand-up meeting, brainstorming, riunioni operative, retrospettive…).
Tutto ciò ci restituisce il senso di una vasta cassetta degli attrezzi da cui attingere, o anche della possibilità di personalizzare questi attrezzi o addirittura di crearne di nuovi. Come dice Peter Block in Community, il futuro si crea “una stanza alla volta”.
Anche il futuro della vostra organizzazione.

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