“Organizzazioni Aperte” ha un incipit da romanzo e un passo che in molti tratti si fa letterario.
Leggendolo, si intravvederà anche quel “tocco” tipico di chi è stato nel cono di luce di Umberto Eco, un maestro generoso e capace — forse solo insieme a Calvino e Gadda — di incarnare un barlume di laica contemporaneità nel nostro Paese bloccato da un confortevole conformismo.
Che Gangemi stia nel contemporaneo, è fuor di dubbio.
Lo dimostra con forza e discrezione già dalla struttura di questo libro, che ha un indice che è esso stesso un saggio di design.
Design di un pensiero semplice ma, di contro, ancora complesso da verbalizzare.
Ovvero che le aziende sono, tra tutte le organizzazioni umane, quelle nelle quali la nostra Specie è riuscita a infilare strati di ottusità, disagio, frustrazione, sadismo, auto-flagellazione e idiozia che da soli basterebbero a decretarne la fine e consegnare il Pianeta ai vegetali (ricordate la lezione di Stefano Mancuso?).
Escludendo volutamente le gerarchie dei grandi monoteismi, contro le quali non c’è partita, le aziende sono ancora oggi il luogo in cui organizziamo il lavoro riproducendo strutture, processi e pratiche in un copia-incolla che è iniziato con la rivoluzione industriale e che continua tra le macchine che pensano, parlano e lavorano al posto nostro.
“Organizzazioni Aperte” parte da qui: dall’ineluttabile.
Diciamo pure che, se l’essere umano cerca la propria stabilità attraverso la forza di catene, siamo ormai abbastanza certi che nessuno arriverà a reciderle con un’enorme cesoia come recitava l’iconografia marxista-leninista.
Mentre è altrettanto evidente che i tempi sono maturi perché quelle catene diventino prima di legno, poi di marzapane e quindi di vapore.
E il tutto sta probabilmente già avvenendo grazie alla capacità umana di scegliere la strada più adeguata a rispondere a una o più necessità.
Guardiamoci attorno: chi, di noi, non direbbe che il senso del lavoro è cambiato prima di tutto per noi lavoratori? Siamo stati pronti a nuove pratiche nell’emergenza pandemica. E abbiamo costruito soluzioni, pensieri, visioni. Siamo stati capaci, adeguati, veloci mentre tutto cambiava.
Oggi, chi lavora sa qualcosa in più sul senso, sulla chiarezza e sulla responsabilità che si possono chiedere e mettere nel lavoro.
È ineluttabile.
Siamo quindi tutti pronti a leggere questo libro, qualsiasi sia la nostra azienda, in qualsiasi ruolo ci si trovi. Anzi, forse ne abbiamo davvero bisogno proprio perché oggi più che mai chiediamo strumenti per leggere la nostra contemporaneità.
Nessuno li sta più dando. Non la politica, non la cultura, non le ideologie.
Siamo quindi -più o meno- tutti pronti a leggere questo libro, qualsiasi sia il nostro lavoro, in qualsiasi ruolo
“Organizzazioni Aperte”, ovviamente, non contiene la ricetta con gli ingredienti pesati.
Ma contiene il processo e gli strumenti necessari all’impasto.
Contiene poi i risultati di quell’impasto. E contiene la storia di prodotti-risultati che sono, sì, accomunati dagli ingredienti, sì, possono essere definiti come molto simili, contigui o complementari, ma che, no, non sono “ontologicamente” la stessa cosa.
Perché a questo punto della storia delle organizzazioni, ci dice Gangemi, le organizzazioni aperte non sono affatto tutte uguali, seppure medesima è la pulsione che le spinge ad aprirsi al cambiamento.
Potremmo dire che, mentre il command and control affligge aziende e burocrazia rendendole rigide, inefficaci e spesso vere e proprie “macchine del dolore per le persone”, le organizzazioni aperte hanno la fluidità della leggerezza espressa dal citatissimo (forse perché è così tremendamente rispondente a un bisogno di contemporaneo?) salto di Guido Cavalcanti che ci fece visualizzare Italo Calvino.
Le organizzazioni aperte non sono tutte uguali, seppure medesima è la pulsione che le spinge ad aprirsi al cambiamento
Gangemi, con questo non-manuale per organizzazioni in cambiamento, non invita a celebrare nessuna selvaggia bellezza nell’assenza di gerarchia o regole o confini o rituali o chiamiamoli come vogliamo.
L’invito, nel percorso che ci propone, è invece rivolto a osservare la versione-Cavalcanti delle nostre organizzazioni.
Perché c’è, sta lì, nei bisogni delle persone che ci lavorano; nel retro-cranio dei manager che vorrebbero tempo per pensieri che si traducano in benessere e prosperità; nella visione dei CEO, che a volte sono i fondatori o gli eredi di chi mostrava i calli sulle mani, e che oggi credono davvero nella possibilità di non essere più padri e padroni bensì strumento di sostegno per realizzazioni collettive e individuali.
“Organizzazioni Aperte” è lo straordinario e contemporaneo non-manuale da tenere nello zaino per ricordarci che una strada c’è. E anche che non è uguale per tutti.
Questo non-manuale è pratico, parla senza scegliere interlocutori privilegiati, non ci richiede sovrastrutture intellettuali. Va diretto.
Se è vero che passiamo sul lavoro gran parte della nostra vita, quel tempo non solo ci appartiene ma possiamo renderlo appassionante, contiguo ai nostri valori, sensato.
Dove sensato sta per pieno di significati, che è ciò che ci serve per dirci che siamo vivi, allineati e presenti.
E, diciamocelo, discretamente pronti a lasciare un futuro decente ai nostri figli anche solo avendolo pensato diverso da quello che abbiamo conosciuto.