La burocrazia non è solo inefficiente, è disumanizzante. Per affrontare le sfide del presente servono organizzazioni che mettano le persone al centro: trasparenti, adattive e capaci di valorizzare ogni intelligenza. La parola a Michele Zanini co-fondatore di Management Lab & Autore di Humanocracy
Inadeguate, ingessate, poco reattive: così si sentono molte aziende, di ogni settore e in tutto il mondo, nei confronti delle sfide del presente. Strutture organizzative verticali, processi rallentati, poca trasparenza, scarsa autonomia decisionale. L’inerzia interna è spesso più potente della spinta al cambiamento. La causa profonda è spesso la burocrazia, che però può manifestarsi in modi molto diversi.
Burocrazia, infatti, non significa solo timbri, moduli e dinamiche pachidermiche che siamo soliti associare alle pubbliche amministrazioni. È qualcosa di più diffuso, profondo e pervasivo: un modello di gestione universale che ha segnato radicalmente il modo in cui le organizzazioni – pubbliche e private – si strutturano, prendono decisioni e distribuiscono il potere.
Da anni, Michele Zanini lavora per smontare questo modello e offrire una visione alternativa, più leggera, più umana e più efficace. Co-autore del libro Humanocracy insieme a Gary Hamel, Zanini è oggi una delle voci più autorevoli a livello internazionale sui temi dell’innovazione organizzativa. Fondatore della società di ricerca e consulenza MLab, ex strategist di McKinsey, ha affiancato grandi aziende globali nel percorso di trasformazione dei loro modelli interni. Il suo lavoro è stato pubblicato da testate come Harvard Business Review, The Wall Street Journal, The Financial Times, e citato come riferimento da manager, accademici e innovatori di tutto il mondo.
Nel 2020 Zanini e Hamel hanno pubblicato Humanocracy. Creating Organizations as Amazing as the People Inside Them, un manifesto potente e lucido che denuncia l’obsolescenza del management burocratico e propone un’alternativa concreta fondata su apertura, responsabilità e distribuzione del potere. Oggi, a quattro anni dall’uscita, una nuova edizione aggiornata del libro è in arrivo, inizialmente sul mercato editoriale americano: più casi, più strumenti, più attualità.
Ci è sembrato il momento opportuno per una lunga conversazione con Michele Zanini, partendo da alcune domande fondamentali:
Come stanno evolvendo le organizzazioni? La burocrazia è ancora il sistema dominante? È possibile immaginare un mondo del lavoro che funzioni davvero a misura di persona, senza rinunciare a performance, controllo e risultati?
Sono domande che toccano nel vivo anche la missione che portiamo avanti in Kopernicana, accompagnando imprese e professionisti nella costruzione di modelli organizzativi alternativi. In questo senso, il confronto con Michele Zanini assume un valore particolare: il suo non è il punto di vista teorico di un guru, ma di esperto che offre strumenti solidi per chi, qui e ora, vuole cambiare.
Humanocracy
La burocrazia non è solo un problema pubblico: è un modello universale
Uno dei primi equivoci da superare, secondo Zanini, riguarda la vera natura della burocrazia. Quando ne parliamo, tendiamo a immaginare la pubblica amministrazione, la lentezza degli uffici statali, le rigidità normative. Ma per Zanini questa visione è troppo ristretta: «La burocrazia è una tecnologia sociale che è diventata la default architecture per gestire le grandi organizzazioni. È costruita attorno a ruoli e responsabilità fisse, autorità gerarchica, conformità, pianificazione top-down e persone che eseguono».
Non è quindi una questione di settore, ma di mentalità organizzativa. Anche le aziende più moderne, tecnologiche e profit-oriented spesso riproducono al loro interno logiche profondamente burocratiche: gerarchie rigide, controllo centralizzato, barriere alla responsabilità diffusa. Tutti elementi che rendono le imprese meno agili, meno innovative, meno capaci di affrontare il cambiamento.
Eppure, la burocrazia resiste. E resiste nonostante sia costosa, inefficiente e, soprattutto, demotivante. Come mai? Zanini non ha dubbi: la burocrazia è un apparato sociale robusto, che ha funzionato per oltre un secolo e ha garantito ordine, replicabilità, disciplina. «Il problema è che non ci siamo mai presi il tempo di immaginare seriamente un’alternativa. Tutti danno per scontato che la burocrazia sia l’unico modo per organizzare il lavoro su larga scala. Ma non è così».
La burocrazia è una tecnologia sociale che è diventata la default architecture per gestire le grandi organizzazioni
Disfunzioni e costi della burocrazia nascosta
Oltre a rallentare le decisioni e soffocare l’iniziativa individuale, la burocrazia ha un costo molto meno visibile, eppure elevato: il costo opportunità legato all’energia umana sprecata.
Secondo Zanini, il prezzo che le organizzazioni pagano per mantenere in piedi modelli burocratici è enorme, anche se difficilmente quantificabile. Le persone, frustrate da meccanismi di controllo, “silos” e micromanagement, rinunciano a esprimere idee, a prendere iniziativa, a innovare. Le imprese perdono così il contributo potenziale della maggioranza dei loro collaboratori. «È come se ci fossimo abituati a lavorare al 40% del nostro potenziale umano, e lo considerassimo normale», osserva Zanini.
Un altro effetto collaterale della burocrazia è la creazione di caste manageriali il cui ruolo consiste più nel mantenere il controllo che nel generare valore. «Oggi molte organizzazioni sono ancora strutturate come se fossero eserciti dell’Ottocento. Con livelli successivi di manager che supervisionano, approvano, valutano, invece di abilitare le persone a fare il loro lavoro con autonomia».
Il risultato? Aziende lente, opache, costose. E soprattutto incapaci di attrarre e trattenere i talenti più motivati. Perché – come dimostra anche l’esperienza di molte PMI italiane – le nuove generazioni non cercano solo un buon contratto, ma un contesto che consenta loro di contribuire, imparare, evolvere.
Aziende lente, opache, costose
Humanocracy: come costruire organizzazioni all’altezza delle persone che le abitano
Il termine “humanocracy” è provocatorio, ma efficace. Designa l’antitesi della burocrazia: un’organizzazione fondata non sul controllo, ma sull’ingegno, sull’autonomia e sulla responsabilità individuale. Non è solo un ideale: è una proposta concreta, sostenuta da casi reali, strumenti operativi e una visione chiara della trasformazione possibile.
Zanini lo spiega così: «Humanocracy vuol dire creare un sistema in cui la persona è al centro, con la sua capacità di contribuire, decidere, apprendere. Dove il potere non è concentrato in cima, ma diffuso attraverso l’organizzazione». L’obiettivo non è solo “essere più umani” in senso etico, ma anche più efficaci, più resilienti e più competitivi in un mondo che cambia rapidamente.
Nel libro, e nell’intervista, Zanini identifica alcuni princìpi cardine per costruire un’organizzazione post-burocratica. Tra questi:
- Ownership diffusa: le persone devono sentirsi responsabili, avere agency, poter decidere su ciò che fanno.
- Trasparenza radicale: le informazioni devono essere aperte, accessibili, comprensibili a tutti.
- Comunità e scopo condiviso: non più reparti in competizione tra loro, ma gruppi coesi che lavorano verso un obiettivo comune.
- Adattabilità: le strutture devono essere flessibili, capaci di evolvere rapidamente senza bisogno di lunghi processi autorizzativi.
- Crescita continua: le organizzazioni devono essere ambienti che favoriscono apprendimento, sperimentazione, evoluzione personale.
A dimostrazione che questi princìpi possono funzionare anche su larga scala, Humanocracy cita il caso di Haier, il colosso cinese degli elettrodomestici che ha suddiviso la propria struttura in centinaia di microimprese autonome. Ma non è l’unico esempio. Roche, gruppo farmaceutico globale, ha ridotto drasticamente la centralizzazione decisionale per aumentare reattività e coinvolgimento. La statunitense Nucor, attiva nel settore dell’acciaio, opera con un modello decentralizzato spinto, dove ogni stabilimento ha autonomia operativa e responsabilità diretta.
Il messaggio è chiaro: la humanocracy non è riservata ai big player della Silicon Valley. Può essere implementata, in forme diverse, anche in contesti industriali, farmaceutici, manifatturieri e persino nelle PMI. A fare la differenza non è il settore, ma il grado di convinzione, coraggio e coerenza con cui si decide di abbandonare i vecchi schemi.
La humanocracy non è riservata ai big player della Silicon Valley
La cultura batte la struttura: cosa ostacola davvero il cambiamento
Se la burocrazia è così inefficiente, perché è ancora così diffusa? Per Zanini la risposta non è solo strutturale, ma anche culturale. Il cambiamento organizzativo non è bloccato solo dai sistemi informativi o dai contratti collettivi: a impedirlo sono soprattutto i modelli mentali che guidano i comportamenti quotidiani, a partire da quelli del management.
«Molti leader si dicono pronti a innovare, ma nella pratica continuano a premiare il controllo, la conformità, l’esecuzione. Serve coerenza. Non basta cambiare l’organigramma: bisogna cambiare le abitudini, i criteri di valutazione e i linguaggi interni». In questo senso, Humanocracy non è solo un progetto organizzativo, ma una trasformazione culturale radicale. E come tutte le trasformazioni profonde, richiede tempo, convinzione e metodo.
Zanini insiste anche su un altro punto spesso trascurato: il cambiamento non può essere calato dall’alto. Nessuna trasformazione culturale può funzionare se è imposta per decreto. «Le persone devono essere coinvolte. Devono contribuire a immaginare il cambiamento, non solo ad adattarvisi. E per farlo, bisogna costruire fiducia, sicurezza psicologica, spazi di ascolto».
È anche per questo che le organizzazioni più resilienti e innovative sono spesso quelle che riescono a dare voce a tutte le intelligenze. Non solo quelle manageriali, ma anche quelle operative, creative e spesso silenziose. «Il potenziale è ovunque, ma dobbiamo avere il coraggio di decentralizzare il potere per liberarlo», osserva Zanini.
Modelli mentali che guidano i comportamenti quotidiani
Non un modello da replicare, ma un principio da adattare
Per chi legge Humanocracy, il rischio è immaginare che esista un modello già pronto da replicare. Ma la realtà è più sfumata. Michele Zanini lo chiarisce con decisione: «Non c’è una struttura standard. C’è un insieme di princìpi. E il compito di ogni organizzazione è tradurli in pratiche concrete, coerenti con i propri obiettivi e con le proprie persone».
Questi princìpi – trasparenza, autonomia, responsabilità diffusa, scopo condiviso – non impongono una forma unica, ma invitano a ripensare le regole del gioco, a costruire contesti più liberi, più agili e più umani. Non si tratta di importare un modello esterno, ma di immaginare una nuova architettura sociale del lavoro, a partire dal proprio contesto.
Proprio per rendere questa trasformazione più accessibile e operativa, nei prossimi mesi uscirà una nuova edizione aggiornata di Humanocracy. Oltre a una revisione dei contenuti, il volume includerà nuovi casi di studio, con particolare attenzione a piccole e medie imprese che hanno iniziato percorsi di riduzione della burocrazia e distribuzione del potere. «Vogliamo dimostrare che questi approcci non sono riservati a grandi aziende con risorse illimitate. Anche realtà più contenute possono adottare pratiche post-burocratiche, spesso in modo più rapido ed efficace», spiega Zanini.
La nuova edizione conterrà anche una sezione dedicata agli strumenti pratici: una sorta di cassetta degli attrezzi per chi vuole iniziare il cambiamento dall’interno, passo dopo passo. «Abbiamo voluto parlare anche a chi è “bloccato nel mezzo”: manager, imprenditori o team leader che vogliono cambiare qualcosa ma non sanno da dove cominciare», racconta Zanini.
Perché Humanocracy non è solo un’idea forte: è una possibilità concreta. Non un salto nel vuoto, ma un cammino fatto di sperimentazioni, aggiustamenti, relazioni e scelte. Un percorso che non richiede il permesso di nessuno per essere avviato.
Se è vero, come afferma una delle frasi guida del libro, che “le organizzazioni possono essere straordinarie quanto le persone che le abitano”, allora la vera sfida non è replicare un modello vincente. È creare le condizioni perché ciascuno possa contribuire pienamente. E in tempi di crescente complessità, è difficile immaginare una risorsa più potente dell’intelligenza liberata delle persone.
Immaginare una nuova architettura sociale del lavoro
